Avessimo fatto come Zapatero

di Fausto Carioti

Verrebbe da prendersela con Moody's, l'agenzia di rating americana infallibile nell'accorgersi delle crisi quando sono già esplose (memorabile la “tripla A”, il giudizio di massima affidabilità rilasciato da Moody's, di cui si fregiava la banca d'affari Lehman Brothers il giorno prima che fallisse). Comportamento al quale di solito prova a rimediare a crac avvenuto, distribuendo randellate a destra e sinistra nel tentativo di rifarsi una verginità. Ieri, pagarne il prezzo è toccato a noi. Prima Moody's ha fatto sapere che la crisi finanziaria greca avrebbe potuto contagiare le banche di alcuni Paesi, inclusa l'Italia. Le cose, in realtà, non stavano proprio così, e dopo poco provava a spiegarlo un'altra agenzia di rating, la Fitch: dall'inizio della crisi, due anni fa, «le banche italiane hanno reagito bene, si sono mosse nella giusta direzione rafforzando il patrimonio e basandosi sul loro punto di forza, la raccolta diretta tra la clientela». E questo attenua di molto il rischio e scaccia gli spettri evocati da Moody's.

Ma ormai era scattato il panico a piazza Affari, dove i titoli degli istituti di credito - che già avevano visto giorni migliori - stavano passando di mano a prezzi da saldo, trascinando al ribasso tutto il listino. Intuita la portata del danno (ci vuole pazienza, so' ragazzi) quelli di Moody's hanno provato a metterci una pezza: in una nuova comunicazione hanno spiegato che il sistema bancario italiano sino a oggi è stato «relativamente robusto», e quanto al rischio di un contagio dalla Grecia si tratta di una eventualità che può diventare concreta solo se «le pressioni dei mercati sui rating sovrani aumenteranno». A quel punto, però, la speculazione era partita e si preparava a lasciare il mercato borsistico in macerie: l'indice delle blue chips ha chiuso in calo del 4,27% e i titoli bancari hanno segnato un crollo tra il 6 e l'11%.

Attaccare Moody's è comunque inutile. Anche perché, dalle nostre parti, non abbiamo bisogno di aiuti dall'estero: a dipingere la situazione assai peggiore di come è ci riusciamo benissimo da soli. Massimo D'Alema, per citarne uno, va in giro a dire che «non c'è una politica per la ripresa né una politica per il sostegno alle imprese e questo vuoto sta aggravando gli effetti della crisi economica». Lui, invece, la ricetta ce l'aveva. Era la primavera del 2006, Romano Prodi si preparava a tornare al governo e D'Alema, all'epoca presidente dei Ds, indicava all'Italia la via da percorrere: «Vi illustro tre ragioni per fare come Zapatero. La Spagna quest'anno è cresciuta del 3%, mentre Berlusconi ci ha lasciato a stecchetto. In due anni Zapatero ha creato un milione di posti di lavoro veri. Inoltre la Spagna si è sostituita all'Italia nel promuovere il dialogo con i Paesi del Mediterraneo».

Da qualche tempo, però, D'Alema e compagni hanno smesso di citare il socialista José Luis Zapatero come punto di riferimento. Adesso, infatti, si ha un'idea più precisa di ciò di cui la sua politica economica è capace. Quest'anno, secondo le ultime stime della Commissione europea, il prodotto interno lordo spagnolo scenderà dello 0,4%, mentre quello dell'Italietta berlusconiana salirà dello 0,8. La disoccupazione in Spagna è arrivata al 20,05%: la più alta d'Europa. Quella italiana, pari all'8,8%, è invece inferiore alla media della Ue. A conti fatti, da quando è andato al governo, Zapatero ha raddoppiato la disoccupazione (nel 2004 era all'11%), creando due milioni e mezzo di nuovi senza lavoro. Anche in Spagna, lo statalismo al potere si è confermato una catastrofe. Ma D'Alema non sembra farsene un cruccio e incolpa il governo Berlusconi della «molto preoccupante» situazione economica italiana. Avessimo dato retta a lui, chissà come la definirebbe.

Anche Pier Luigi Bersani fa la sua parte: l'Italia «ha la febbre alta», risponde ogni volta che dall'esecutivo qualcuno lancia messaggi di speranza. Fosse per il governo, assicura il segretario del Pd, il nostro Paese sarebbe «sul traghetto per la Grecia», che come slogan per convincere gli investitori ad andare altrove pare efficace. Bersani ha saputo trovare le parole giuste anche per tranquillizzare i lavoratori: in questa crisi, ha detto, l'Italia si avvia a perdere «un milione di posti di lavoro». Pure il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha un elenco di buoni motivi per cui gli imprenditori dovrebbero usare i loro soldi per creare posti di lavoro all'estero: «Il nostro Paese è l'unico rimasto sostanzialmente fermo. Se non si ha un'idea, un progetto, si finisce per galleggiare. Manca una coesione sociale, pagheremo questo in modo caro». E la ripresa di cui già si inizia a parlare? «È praticamente invisibile. È una fase che si prolungherà, purtroppo».

Il migliore di tutti, come al solito, resta Antonio Di Pietro: in confronto a quella dipinta da lui, l'Italia morta di fame raccontata da trasmissioni come Annozero e Ballarò è l'America di Ronald Reagan. Il leader dell'Idv è riuscito a dire che: «La crisi non è stata risolta né tantomeno è finita. Si può dire che siamo appena all'inizio»; «Il paese reale è fatto di aziende che chiudono, di lavoratori che perdono il posto e di giovani che non hanno futuro»; «Tutto il Paese è al collasso»; «La rivolta sociale sta per arrivare, è alle porte»; le conseguenze della crisi economica sull'occupazione «potranno porre una questione di tensione sociale, non esclusi anche momenti di violenza sociale». Chissà come ci è rimasto male quando gli hanno spiegato che quella che facevano vedere in televisione era la Grecia.

© Libero. Pubblicato il 7 maggio 2010.

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