Solo Fini può salvare Bersani

di Fausto Carioti

Il Cavaliere ha i suoi problemi con Umberto Bossi e non si fida sino in fondo di Giulio Tremonti. Per non parlare di quello che gli combina Gianfranco Fini, che è appena tornato a mettersi di traverso, stavolta sulla legge elettorale. Pier Luigi Bersani e il suo Pd, però, restano una garanzia: su di loro Silvio Berlusconi può sempre contare a occhi chiusi. Basta guardare questa storia delle riforme. Qui, delle due l’una: o l’opposizione si presenta con una proposta definita, e su di essa tratta con il centrodestra, ottenendo qualcosa e rinunciando a qualcos’altro, oppure va avanti in ordine sparso, limitandosi a dire «no» a ogni cosa che propongono governo e maggioranza. L’esito scontato, in questo secondo caso, è che Berlusconi finisca per fare come gli pare, giocandosi la partita con i soli Bossi e Fini, e non è che gli dispiaccia. Siamo ancora agli inizi, ma l’aria che tira è proprio questa.

Starebbe a Bersani, leader del primo partito d’opposizione, trovare uno straccio d’intesa dentro la minoranza, cioè con l’Idv (sua alleata) e con l’Udc (con la quale vorrebbe allearsi). Ma come può riuscirci, pover’uomo, se già dentro al suo partito non ce ne sono due che la pensino allo stesso modo e se oggi l’unica cosa chiara nel centrosinistra è che non sarà lui il candidato premier nel 2013? Non a caso, Bersani preferisce parlare del luogo delle riforme: si fanno in Parlamento, ha detto. Bene. Ma ciò che conta, anche in democrazia, è cosa si ha da dire: in aula, in commissione, a palazzo Grazioli, al bar dietro l’angolo. E il problema vero, per Bersani, è proprio questo: al momento non ha nulla di concreto da dire.

La proposta del PdL, anche se non è stata messa nero su bianco, ha già i contorni chiari. Anche ieri Berlusconi è stato prodigo di dettagli. Primo: pur preferendo l’elezione diretta del premier, il Cavaliere è pronto ad accettare un modello semi-presidenzialista alla francese, nel quale il presidente della Repubblica, eletto dal popolo, non è il capo del governo, ma “solo” colui che sceglie quest’ultimo. Per limitare i rischi di “coabitazione”, cioè che vi siano un presidente e un primo ministro di colore opposto, le elezioni politiche si terrebbero assieme a quelle per il Quirinale. Secondo: la legge elettorale va bene com’è, e comunque mai il leader del PdL ne accetterebbe una col doppio turno. Terzo: serve una grande riforma della giustizia, che separi il più possibile lo status dei magistrati giudicanti da quello della pubblica accusa.

Al cantiere di centrodestra, che va avanti spedito (la Lega vuole il federalismo, e per ottenerlo è disposta a cedere su gran parte del resto), il Pd assiste con l’elettroencefalogramma piatto, capace solo di produrre piccoli distinguo o le frasi fatte di Bersani, tipo «le riforme non può farle uno solo» e «il problema numero uno si chiama lavoro». L’inconsistenza del Pd è tale che ieri è dovuto intervenire Giorgio Napolitano per mettere qualche paletto ai progetti di Berlusconi e indicare la strada al Partito democratico.

Il presidente della Repubblica ha messo in guardia dal cambiare la forma di governo ricorrendo a «presidenzialismo, premierato e così via», che negli ultimi quindici anni sono stati protagonisti di “tentativi falliti” (una forma di premierato che ricordava quella inglese fu bocciata dal referendum del giugno 2006). Napolitano, comunque, si è guardato bene dallo scippare il lavoro al Parlamento e tantomeno si è sognato di porre veti. E nemmeno ha nominato in modo esplicito il semi-presidenzialismo, al quale pensa Berlusconi, tra le strade “rischiose”.

In compenso, c’è una parte del suo discorso che è piaciuta molto al PdL: quella in cui il Capo dello stato dice che «si pongono all’ordine del giorno questioni di riforma del fisco, così come questioni di riforma del sistema di sicurezza sociale», nonché «esigenze di riforma della giustizia, al fine di assicurare la certezza del diritto». Un invito chiaro ad agire a 360 gradi, giustizia inclusa, che è musica per chi ha in mente le cose da fare e possiede i numeri per realizzarle e complica ancora di più il ruolo di chi sta all’opposizione senza avere nulla da proporre. A questo punto Berlusconi può andare avanti, avendo l’accortezza di non perdere il contatto col Quirinale. Il cui inquilino, almeno fin quando l’opposizione non darà segni di risveglio, intende controllare da vicino quello che combinano PdL e Lega.

Anche se Napolitano sta facendo di tutto per riuscire a coinvolgere l’opposizione nella partita delle riforme, l’unico che davvero appare in grado di togliere il Pd dal ruolo di spettatore è Fini. Il presidente della Camera ha appena chiesto a Berlusconi di cambiare la legge elettorale e ha bocciato l’adozione del modello francese, perché il semi-presidenzialismo alla parigina «funziona solo con una legge elettorale maggioritaria a doppio turno» (proprio quella che Berlusconi non vuole, perché convinto che penalizzerebbe il suo partito). Parole e concetti non molto diversi da quelli del presidente della Repubblica, ed è difficile credere che tale assonanza sia figlia del caso. Questo asse con il Quirinale, e il fatto che la terza carica dello Stato stia cercando di arruolare tra i suoi consiglieri uno stratega di rilievo come Giuliano Ferrara, confermano che nella partita delle riforme Fini intende giocare un ruolo di primo piano. Il problema di Fini, come sempre, sono i numeri, giacché non può contare nemmeno sull’appoggio di tutti gli ex di An confluiti nel PdL. Anche a buona parte del Pd, però, almeno a parole, l’attuale legge elettorale non va bene.

Sfruttare il piccolo varco aperto da Fini nella maggioranza, a questo punto, è una scelta obbligata per Bersani e i suoi. Ma per riuscirci sul serio è necessario trovare una proposta da proporre ai finiani, tentando di allargare il consenso all’Udc, all’Idv e a chi ci sta. E pretendere che il Pd di oggi riesca a fare qualcosa di simile sembra davvero troppo. Malgrado la benevolenza del Quirinale, il rischio che Bersani e i suoi finiscano emarginati è altissimo. Berlusconi saprà farsene una ragione. Fini, chissà.

© Libero. Pubblicato il 10 aprile 2010.

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