Gianfranco, fine

di Fausto Carioti

L’affondo di Gianfranco Fini non è giunto inaspettato. Silvio Berlusconi ne era al corrente da mercoledì sera. Era stato il finiano Italo Bocchino, vicepresidente dei deputati del PdL, all’ora di cena, ad avvertire gli uomini del Cavaliere. «Guardate che Fini fa sul serio. O Berlusconi dà il trenta per cento del partito a uomini di sua assoluta fiducia, oppure è pronto a fare gruppi parlamentari autonomi». Apprese le intenzioni dell’alleato-rivale, ieri mattina Berlusconi aveva lanciato il suo, di avvertimento, chiamando al telefono Ignazio La Russa e Gianni Alemanno. Ovvero due ex aennini non catalogabili né come berlusconiani puri né come finiani. Il messaggio era rivolto a loro affinché lo recapitassero a Fini: «Ricordate, io ho fatto il PdL in un giorno e ve l’ho detto dopo. E adesso, se voglio, lo disfo in mezza giornata senza dirvi nulla».

Dietro queste parole già affiorava la solita tentazione di Berlusconi: usare l’arma atomica contro Fini e il centrosinistra, ovvero ottenere dal Quirinale elezioni anticipate. Tentazione che il recente voto alle regionali e alle amministrative ha reso più forte: l’opposizione, in questo momento, è semplicemente inesistente, e assieme a Bossi il Cavaliere si sente in grado di vincere nei due terzi del Paese. Inoltre la prossima legislatura sarà quella in cui dovrà essere eletto il successore di Giorgio Napolitano. Perché farsi sfuggire l’occasione? Già.

Così, quando Berlusconi si è presentato a Montecitorio per il pranzo con Fini, scortato da Gianni Letta che ieri ha compiuto gli anni, tutto o quasi era già stato scritto. Durante il pranzo l’atmosfera era tesa, ma l’“urlometro” è stato insolitamente basso. Berlusconi non si è sforzato per trattenere Fini. Gli ha snocciolato sondaggi dai quali emerge che il partito di Fini, da solo, avrebbe meno del 3% dei voti. Gli ha anche fatto presente che deve al PdL la presidenza della Camera, e che quindi se lui lascia il partito deve abbandonare pure lo scranno più importante di Montecitorio, e lo ha invitato a pensarci bene prima di rompere. Terminato il colloquio, il premier è uscito dalla sala da pranzo tranquillo e soddisfatto e, con serenità strafottente, se ne è andato in giro a fare shopping.

Sul documento di separazione consensuale ora manca solo la firma finale dei due, per la quale il Cavaliere si è preso 48 ore di tempo, utili per vedere cosa combina Fini. Il quale ha bisogno di almeno venti deputati per creare un proprio gruppo alla Camera e di dieci senatori per fare altrettanto a palazzo Madama. Già oggi, a Montecitorio, la maggioranza che il centrodestra riesce a ottenere nelle votazioni è risicata, e spesso - come raccontano le cronache parlamentari - nemmeno di maggioranza si tratta. L’uscita di una ventina di deputati dal PdL sarebbe pesantissima. Ma l’ingovernabilità non terrorizza Berlusconi, il quale - anzi - è convinto che spaventi più i finiani che i suoi.

Tant’è vero che il premier, ieri sera, ha mandato avanti il presidente del Senato, Renato Schifani, per “avvertire” gli uomini di Fini. «Quando una maggioranza si divide non resta che dare la parola agli elettori», ha sentenziato Schifani. Il messaggio del Cavaliere è chiaro: chi se ne va con Fini ha i giorni da parlamentare contati, perché le elezioni sono dietro l’angolo e dovrà cercarsi una candidatura al di fuori del comodo ombrello del PdL. È iniziato così uno scontro in apparenza paradossale, nel quale gli scissionisti finiani, spaventati dal voto anticipato, dicono che il governo deve comunque restare in carica sino al termine della legislatura, mentre chi il governo lo guida, e cioè Berlusconi, freme per spingerli fuori dalla maggioranza e ottenere lo scioglimento delle Camere.

Comunque vada, Berlusconi è convinto che per Fini questo sarà il colpo decisivo. Se l’ex leader di An sarà sconfessato dai suoi e non riuscirà a mettere in piedi gruppi autonomi, Berlusconi confida che si dimetterà da presidente della Camera. Se invece Fini dovesse riuscire nel suo intento, sancirà la fine della maggioranza che aveva vinto le elezioni nel 2008. E siccome maggioranze alternative non sono possibili, come ripeteva ancora ieri sera il premier ai suoi, «in base al principio del rispetto della sovranità popolare si dovrà andare quanto prima al voto». Con Fini, e quelli che lo avranno seguito, fuori dal PdL.

© Libero. Pubblicato il 16 aprile 2010.

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