Il bivio di Bersani

di Fausto Carioti

Cosa è il Partito democratico? È l’alternativa al PdL o è un concorrente diretto dell’Italia dei Valori? È un partito che si candida a governare il Paese, e che quindi ragiona nell’ottica di chi prima o poi pensa di avere un proprio rappresentante a palazzo Chigi, o si è ridotto a essere una lista antisistema, che si candida a conquistare il voto di protesta, incluso quello delle cheerleader del mafioso Gaspare Spatuzza? Insomma, Pier Luigi Bersani è in grado di assumere un ruolo di guida nei confronti del popolo di centrosinistra, come fece all’epoca Palmiro Togliatti, o è condannato a obbedire alla pancia degli elettori? La risposta a queste domande il segretario del Pd dovrà darla nelle prossime settimane. Scegliendo se sedersi o meno al tavolo delle riforme con la maggioranza.

Non sarà una decisione facile. Sia perché una parte del suo partito, dirigenti inclusi, nutre nei confronti dell’attuale governo e dei suoi elettori un forte sentimento di odio antropologico («Ma davvero volete aprire il dialogo con questa gente?», chiedeva ieri, schifata, una frequentatrice della pagina Facebook di Bersani). Sia perché a marzo, e cioè domani, si vota in tredici regioni, undici delle quali oggi governate dal centrosinistra, e aggiungiamo pure che non si è mai visto un partito ammorbidire i toni nell’imminenza di un appuntamento elettorale tanto importante. Però c’è modo e modo di fare opposizione, anche dura. Pure ieri - incoraggiato dalle parole di Giorgio Napolitano - Bersani ha dato l’impressione di voler lavorare per un’intesa con il PdL, ma ha trasmesso pure l’impressione di non sentirsi forte, di credere che, se «inciucia» e poi le regionali vanno male, niente gli sarà perdonato, mentre se perde, ma senza avere concesso nulla al «nemico», pure in caso di batosta avrà ancora credito da spendere con i suoi.

Però, anche se Bersani si nasconde e prova a mettere il cerino nelle mani di Berlusconi, adesso sta a lui, e a nessun altro. Sono gli elettori del Pd quelli che si indignano se si raggiunge un’intesa tra i due partiti, mica quelli del PdL. È l’alleato del Pd, l’Italia dei Valori, che lancerà l’accusa di aver fatto un baratto indecente. Non la Lega, che deve incassare il federalismo e le poltrone da governatore al Nord e quindi si limiterà a qualche uscita scenografica. E sono i giornali della sinistra, Repubblica in testa, quelli che già rivolgono a Bersani l’accusa di collaborazionismo con il bieco dittatore.

È vero quello che si mormora nel PdL, e cioè che alla maggioranza, in questo momento, conviene offrire il ramoscello d’ulivo, perché ha poco da perdere. Ma è vero anche che Bersani, che pure rischia di più, ha dalla sua il Quirinale. Soprattutto, sebbene non sia carino dirlo, è vero che da quando esistono i parlamenti le intese migliori si fanno tra grandi partiti, anche se avversari, spesso tagliando fuori i piccoli, anche se alleati. Per la semplice ragione che i grossi partiti hanno esigenze simili: vogliono stabilità per i loro governi, chiedono il riconoscimento di un ruolo speculare a quello dell’esecutivo quando sono all’opposizione e rivendicano quello che il vecchio Pci chiamava «primato della politica» sui poteri non elettivi, magistratura inclusa. I segretari dei grandi partiti sanno poi che quello che tocca all’uno, nel bene e nel male, domani può toccare all’altro, e tenendo presente questo possono anche rinunciare a ottenere un vantaggio immediato in nome di un maggiore guadagno futuro.

Solo che, per fare un simile investimento, le buone intenzioni - che pure Bersani sembra avere - non bastano. Servono forza politica e ossigeno. Ingredienti che scarseggiano: sul Pd non c’è un vero controllo politico per il semplice motivo che non è un partito e forse non lo sarà mai, e che - a differenza del PdL - non ha nemmeno un leader che sia sinonimo di vittoria sicura, uno per il quale gli elettori siano pronti a gettarsi tra le fiamme. E l’ossigeno manca perché il momento per il Pd è oggettivamente infame, tra scandali degli amministratori locali, linea politica ancora tutta da definire e un alleato specializzato nel solleticare i peggiori istinti della base. Come confermano le parole usate ieri dal deputato dell’Italia dei Valori Francesco Barbato: «Per ogni operaio della Fiat buttato fuori, la tiro io in faccia la statuetta a Berlusconi». Come si fa a competere con chi si presenta alle tute blu con simili argomenti?

Insomma, la sfida che attende Bersani è di quelle toste. Se l’uomo è ambizioso, come dicono, questo è il momento in cui deve mostrare di avere un coraggio proporzionale ai suoi obiettivi. Se sceglierà di non fare nulla e si accontenterà di sedersi sulla riva del fiume aspettando di vedere passare il cadavere (cadavere politico, di questi tempi è meglio specificare) di Berlusconi, con ogni probabilità sarà lui ad essere portato a valle dalla corrente, come è già successo a Walter Veltroni e a Dario Franceschini, diventati ombre della politica. Se invece riuscirà a scrivere insieme ai suoi avversari le regole della Terza repubblica (anche se Bersani non accetterà mai di chiamarla così: scelga pure un altro nome, non è questo che conta) nessun obiettivo gli sarà precluso, e non sarà il risultato di una singola elezione a farlo scomparire dallo scenario della politica.

© Libero. Pubblicato il 23 dicembre 2009.

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