Ma quale "super partes"

di Fausto Carioti

Certi complimenti sarebbe meglio aspettare di riceverli dagli altri. A farseli da soli (Silvio Berlusconi docet) si rischia di non rimediarci una bella figura. Giorgio Napolitano, ad esempio, ieri ha confermato che chi si loda s’imbroda. «Tredici anni fa», ha detto il presidente della Repubblica, «nell’assumere l’incarico di ministro dell’Interno, ero determinato a svolgerlo come uomo ormai delle istituzioni, e non di una parte politica». Insomma, a partire dal maggio del 1996 Napolitano Giorgio, classe 1925, avrebbe ufficialmente smesso di essere uomo di partito per diventare una figura istituzionale “super partes”. Nessuno, nemmeno nel centrodestra, si è sognato di contraddirlo: questo è il momento di ricucire i rapporti con il Quirinale. Peccato, però, che gli annuari del Parlamento europeo e del Senato, e la stessa storia di Napolitano, siano lì a smentirlo.

Napolitano smise di essere ministro con la fine del governo Prodi, nell’ottobre del 1998. Va da sé che, durante la sua permanenza al Viminale, non si era mai sognato di dire che il suo non era un incarico politico: quella del "super partes", anche se retrodatata, è una novità delle ultime ore. Il meglio, però, viene dopo. Nel 1999 Napolitano si candida alle elezioni europee. Lo fa nella lista dei Ds. Ed è così lontano dal sentirsi "istituzionale" che si prende sulle spalle l’incarico più politico che c’è: coordinatore della campagna elettorale del partito. «I nostri eletti», annuncia, «si sono trovati e si troveranno a loro agio nella famiglia socialista». Una volta eletto, infatti, è il primo a entrare nel gruppo parlamentare del Pse. Tanto che gli eurosocialisti pensano di candidarlo alla presidenza del Parlamento europeo. Poltrona che però andrà a Nicole Fontaine, del gruppo moderato dell’Ump. In quota al Pse, comunque, Napolitano diventa presidente della Commissione Affari costituzionali di Strasburgo.

Nel settembre del 2005, assieme a Sergio Pininfarina, è nominato senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi. E nemmeno in questa veste smette di essere uomo di parte. Eppure l’occasione l’avrebbe. Entrato a palazzo Madama deve scegliere: iscriversi al gruppo misto, quello dei "cani sciolti", come fatto da molti senatori a vita - incluso Pininfarina - che interpretano il loro mandato come un incarico istituzionale, o confermarsi fedele alla linea, affiliandosi al gruppo degli ex comunisti. Manco a dirlo, Napolitano sceglie la seconda strada, e si fa tutta la legislatura nel gruppo "Democratici di Sinistra - l’Ulivo".

Nuovi dettagli sul suo profilo “istituzionale” si scoprono nel maggio del 2006, quando sta per essere eletto presidente della Repubblica. I giornalisti vanno nella sezione romana dei Ds alla quale Napolitano è iscritto, in via dei Giubbonari (e sì, perché in tutti questi anni il "super partes" ha continuato a iscriversi regolarmente al partito). Lì il segretario Fabio Nicolucci, commosso, racconta così il compagno Napolitano: «Ha sempre partecipato attivamente alla vita della sua sezione di base. È tra i primi a rinnovare la tessera e sempre versando una quota molto alta». Dell’uomo «ormai delle istituzioni, e non di una parte politica», sbandierato ieri da Napolitano, non c’è ancora alcuna traccia, nonostante siano passati ben dieci anni dalla data della sua presunta "conversione".

Appena salito al Quirinale, fa capire subito da che parte sta il suo cuore: intervistato dal settimanale francese “L’Express”, accusa Berlusconi di scarso europeismo e usa parole al miele nei confronti del disastrato governo dell’Unione: «Prodi deve fare del suo meglio per superare queste fragilità e governare. Una delle sue qualità è la pazienza. E ha la capacità di unire, cosa che è forse il suo principale atout in questa situazione». Napolitano mette anche alla prova il suo fiuto politico: «Penso che Prodi abbia buone possibilità di riuscire», dice convinto, e sappiamo tutti come è andata a finire.

Ma la buccia di banana dell’uomo del Colle è sempre stata il comunismo: ogni volta in cui si è trovato a fare i conti con il suo passato, più delle sue parole hanno pesato i silenzi. Come nel caso di Aleksandr Solzhenitsyn. Lo scrittore russo, grande accusatore dei crimini del comunismo, nel 1974 fu esiliato in Germania occidentale. L’anno precedente, a Parigi, erano apparsi i primi due libri di "Arcipelago Gulag", la monumentale inchiesta con cui Solzhenitsyn denunciava al mondo cosa accadeva nei campi di concentramento sovietici. Gran parte della sinistra europea si ribellò al suo esilio e si schierò con lo scrittore. Napolitano, che all’epoca aveva 49 anni ed era il responsabile culturale del Pci, invece pensò bene di difendere la scelta del Cremlino: l’esilio, scrisse sull’Unità, doveva ritenersi la «soluzione migliore». Anche perché le opere di Solzhenitsyn erano «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell’Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre». Solzhenitsyn è morto nell’agosto del 2008, e per Napolitano sarebbe stata una buona occasione - nonché l’ultima - per rendergli omaggio e ammettere in pubblico di aver sbagliato. Invece, ha preferito tacere.

Un imbarazzo - molto poco istituzionale - davanti alla Storia che Napolitano ha confermato lo scorso 10 febbraio, nel Giorno del ricordo, istituito per «rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe», uccise dai comunisti jugoslavi con l’avallo politico del Pci. Ecco, Napolitano è riuscito a «ricordare» gli infoibati senza fare il nome dei loro assassini: i comunisti. In compenso, il suo discorso abbondava di accuse dirette alle «responsabilità storiche del regime fascista», che almeno con le foibe del compagno Tito non avevano nulla a che vedere. Ma a chi ha passato gran parte della vita a credere in certe cose basta davvero poco per sentirsi al di sopra delle parti.

© Libero. Pubblicato il 14 ottobre 2009.

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