Così la Consulta ha contraddetto se stessa

di Fausto Carioti

La "Fabbrica della Sagra Consulta", come è chiamato il palazzone che fa da sede alla Corte Costituzionale, si conferma fabbrica delle ipocrisie. Da lì ieri notte, dopo un meticoloso lavoro di limatura, sono uscite le motivazioni della bocciatura inflitta il 7 ottobre al lodo Alfano. La Consulta sostiene che lo "scudo" che mette al riparo dai processi penali il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e i presidenti dei due rami del Parlamento non doveva essere varato con legge ordinaria, ma mediante riforma della Costituzione, perché esso «attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative». Rispetto alla sentenza del 2004 con cui la stessa Corte aveva bocciato lo scudo Schifani, i giudici hanno poi spiegato di non essersi contraddetti, perché si sono mossi nella stessa direzione di allora.

Come ciò sia possibile, è uno dei tanti misteri buffi della giurisprudenza costituzionale. Cinque anni fa, affossando il lodo Schifani (l’antenato del lodo Alfano), la Consulta aveva spiegato che esso non era incostituzionale di principio, ma solo per alcune ragioni tecniche. Rimosse queste, si lasciava intendere, il problema sarebbe stato risolto. Così il lodo Alfano prevedeva, innanzitutto, che la carica istituzionale imputata avrebbe potuto rinunciare allo scudo in qualunque momento, per farsi processare. La protezione del lodo, inoltre, si sarebbe esaurita con la fine dell’incarico istituzionale e non sarebbe stata rinnovabile. Infine, chi si fosse ritenuto vittima di un abuso commesso da un’alta carica dello Stato avrebbe potuto rivolgersi subito alla giustizia civile. E proprio il fatto che il processo penale alla fine si sarebbe svolto, perché la sospensione sarebbe stata solo temporanea, autorizzava chi ha scritto la legge a dire che non si trattava di una nuova immunità, e che quindi la norma poteva essere varata per via ordinaria.

Un parere di parte? Nemmeno per sogno. Basta vedere quello che lo stesso presidente della Repubblica aveva scritto nelle note esplicative con cui, nel luglio 2008, aveva prima accompagnato l’invio alle Camere del lodo Alfano e poi motivato la sua firma sul testo varato dal Parlamento. Il presidente della Repubblica sosteneva che il lodo risultava «corrispondere ai rilievi formulati dalla Corte» nella sentenza del 2004. In quell’occasione, infatti, «la Corte non sancì che la norma di sospensione di quei processi dovesse essere adottata con legge costituzionale». La stessa Consulta, proseguiva il presidente della Repubblica, aveva giudicato «un interesse apprezzabile la tutela del bene costituito dall’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche».

In parole povere, chiedendo di non essere processato finché è in carica perché i suoi impegni istituzionali non glielo permettono, Berlusconi aveva espresso - sempre secondo la Consulta versione 2004 - una richiesta sensata, che poteva essere esaudita senza toccare la Costituzione. La Consulta versione 2009 ha stabilito l’esatto contrario, anche se i suoi ineffabili giudici, nelle motivazioni depositate ieri, sono riusciti a sostenere che le due decisioni vanno nella stessa direzione. Allo stesso modo, l’incostituzionalità dello scudo per le alte cariche adesso non è più legata alle sue caratteristiche, ma intrinseca: un provvedimento simile è contrario alla Costituzione comunque venga fatto, perché il presidente del Consiglio e i ministri «sono sullo stesso piano», e non è giusto trattare il primo in modo diverso dai secondi. Così come «non è configurabile una significativa preminenza dei presidenti della Camere sugli altri componenti» del Parlamento. Niente di tutto questo era emerso nel verdetto emesso sul lodo Schifani.

A conti fatti, delle due l’una: o Napolitano non capisce nulla di diritto costituzionale, tanto che era caduto nello stesso errore commesso da numerosi giuristi, ritenendo il lodo Alfano adeguato a quanto stabilito dalla Consulta nel 2004, oppure i magistrati costituzionali emanano verdetti basati su criteri politici, che poi provvedono a puntellare con brillanti giustificazioni giuridiche. Nella serena consapevolezza di essere infallibili anche se si contraddicono a distanza di cinque anni, dal momento che non esiste giudizio costituzionale superiore al loro.

© Libero. Pubblicato il 20 ottobre 2009.

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