Norman Borlaug (quello vero)

E' morto Norman Ernest Borlaug, ma questo immagino che lo sappiamo un po' tutti. Quello che non tutti sappiamo, perché nessuno si preoccupa di scrivercelo, è che Borlaug, scienziato statunitense e premio Nobel per la Pace nel 1970, era uno dei più tenaci difensori degli organismi geneticamente modificati. Ma è meglio che non si sappia in giro: la gente deve credere che a difendere gli Ogm siano solo le solite multinazionali brutte, sporche e cattive. Tanto che, a leggere certi "coccodrilli" nei quali la parola Ogm manco appare, un lettore poco informato potrebbe benissimo pensare che Borlaug fosse fatto della stessa pasta di Vandana Shiva. Non era così, per fortuna sua, nostra e del Terzo Mondo, che ha contribuito a sfamare.

Qui sotto, per gentile concessione delle Edizioni Lindau, pubblico la prefazione scritta da Borlaug per l'edizione italiana del libro di Henry Miller e Greg Conko "Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta". Utile a capire bene chi fosse davvero Borlaug, senza farcelo spiegare da chi non lo conosceva o vuole raccontarci un Borlaug che non esisteva. (Qui per ordinare il libro).
di Norman E. Borlaug

Henry I. Miller e Gregory Conko hanno brillantemente raccontato come gli interessi personali, la cattiva scienza e l’eccessiva regolamentazione del governo abbiano profondamente compromesso le potenzialità della nuova biotecnologia. Questo libro è un invito all’azione per resistere a un processo politico pernicioso, che sta negando enormi vantaggi ai consumatori di tutto il mondo.

Tutta la vita implica il bilanciamento fra rischi e benefici. Nella nostra esperienza, e osservando quella degli altri, possiamo riconoscere i rischi di attività consuete e, a volte quasi a livello del subconscio, possiamo adattarci a questi rischi. Un bambino impara presto – a volte dolorosamente – che toccare un fornello caldo comporta un rischio elevato. Generalmente, senza pensarci molto, corriamo il rischio di essere attaccati dagli squali sulle spiagge. Gli accademici e gli esperti delle compagnie assicurative sono stati in grado di quantificare i rischi, per esempio, del fumare un pacchetto di sigarette al giorno, di andare al lavoro in macchina o di sottoporsi a un intervento chirurgico al cuore.

Il rischio è più problematico, quando ci troviamo di fronte ad attività o prodotti che non ci sono familiari. In assenza di esperienza sufficiente (ciò che gli scienziati definiscono «dati») per rendere sicura una valutazione del rischio, abbiamo la tendenza a diventare ansiosi e compensiamo la nostra mancanza di conoscenza sovrastimando il rischio.

Gli autori impiegano un apposito esempio contemporaneo per illustrare le politiche pubbliche impazzite – la regolamentazione negli Stati Uniti e all’estero della nuova biotecnologia, o gene-splicing, che ha grandi potenzialità per migliorare piante e microrganismi per l’agricoltura e la produzione di cibo. Henry I. Miller e Gregory Conko sostengono in modo persuasivo non solo che i vantaggi di questa tecnologia ne superano di gran lunga i rischi, ma anche che c’è stato un misero fallimento nella formulazione delle politiche pubbliche. Le conseguenze sono state – argomentano correttamente – una iper-regolamentazione di questa tecnologia e dei suoi prodotti, disincentivi alla ricerca e allo sviluppo, meno scelta e per i consumatori prezzi inflazionati.

In qualità di patologo vegetale e coltivatore, ho visto come gli scettici e i critici della nuova biotecnologia desiderino posporre la distribuzione di varietà di colture migliori, nella speranza che un altro anno, o un altro decennio, di test forniscano più dati, più conoscenza, più sicurezza. Ma più di mezzo secolo nel campo delle scienze agricole mi hanno persuaso del fatto che si dovrebbe utilizzare il meglio che abbiamo a portata di mano, riconoscendone difetti e limiti. Questa filosofia ha funzionato più spesso in positivo che in negativo, nonostante il costante pessimismo e l’allarmismo dei critici.

Ricordo il nostro impiego della tecnologia per sconfiggere
lo spettro della fame in India e in Pakistan negli anni ’50 e ’60. La maggior parte degli «esperti» pensava che la morte di massa per fame fosse inevitabile e ambientalisti come Paul Ehrlich a Stanford prevedevano che centinaia di milioni di persone sarebbero morte in Africa e in Asia nel giro di pochi anni «nonostante qualsiasi programma intrapreso». I finanziatori della nostra opera vennero messi in guardia contro lo spreco di risorse per un problema irrisolvibile.

Tuttavia, nel 1963, la Rockefeller Foundation e il governo messicano istituirono l’International Maize and Wheat Improvement Center (conosciuto attraverso l’acronimo spagnolo CIMMYT) e inviarono la mia squadra in Sud Africa per insegnare agli agricoltori locali come coltivare varietà di grano ad alta resa. Come risultato, a partire dal 1968 il Pakistan divenne autosufficiente nella produzione di grano e l’India pochi anni più tardi.

Mentre davamo origine a quella che divenne poi nota come la «rivoluzione verde», abbiamo dovuto affrontare il caos burocratico, la resistenza dei produttori locali di sementi, nonché secoli di costumi, abitudini e superstizioni degli agricoltori. Abbiamo vinto questi difficili ostacoli perché qualcosa di nuovo andava fatto. Chissà quante persone sarebbero morte di fame, se avessimo ritardato la commercializzazione delle nuove varietà di cereali ad alta resa e perfezionato le pratiche di gestione delle colture fino a che non avessimo potuto condurre dei test per escludere ogni ipotetico problema, e testarne la vulnerabilità a ogni tipo di malattia o infezione concepibili? Quanta terra, per la natura e l’habitat selvatico, e quanto humus sarebbero andati perduti se le pratiche più tradizionali e a rendimento inferiore non fossero state soppiantate?

Allora, Forrest Frank Hill, un vicepresidente della Ford Foundation, mi disse: «Godetevi questo momento, perché nulla del genere vi capiterà più. Alla fine, i signori del no e i burocrati vi soffocheranno, e voi non sarete in grado di ottenere il permesso per altre opere del genere» 2. Hill aveva ragione. La sua previsione anticipava l’era del gene-splicing che sarebbe giunta alcuni decenni dopo. Come Henry I. Miller e Gregory Conko descrivono nel loro volume, i signori del «no» e i burocrati ce l’hanno fatta. Se le nostre nuove varietà fossero state sottoposte al tipo di restrizioni e requisiti regolativi imposti contro la nuova biotecnologia, non sarebbero mai state disponibili.

Dal 1950 al 1992, la produzione mondiale di grano è cresciuta da 692 milioni di tonnellate prodotte su quasi 690.000 ettari di terreno coltivabile a 1,9 miliardi di tonnellate per 700.000 ettari – un aumento della produttività di oltre il 150%. Senza l’agricoltura a resa elevata, milioni di persone sarebbero morte di fame, oppure l’incremento della produzione di cibo si sarebbe realizzato solo attraverso un drastico aumento della superficie coltivata – con una perdita di paesaggi incontaminati cento volte superiore alle perdite dovute all’espansione urbana e suburbana.

Oggi, ci troviamo di fronte a un problema simile: nutrire una popolazione mondiale prevista di oltre 8 miliardi di persone nel prossimo quarto di secolo. Il mondo ha, o avrà presto, a disposizione la tecnologia agricola per vincere questa sfida. La nuova biotecnologia può aiutarci a fare cose che prima non potevamo fare, e a farle in modo più preciso, controllabile ed efficiente. La questione cruciale oggi è se ai coltivatori e agli allevatori verrà permesso di impiegare questa tecnologia. Gli estremisti del movimento ambientalista stanno facendo tutto il possibile per fermare il progresso scientifico all’istante, e i loro alleati nelle agenzie di regolamentazione sono più che felici di dar loro una mano.

Abbiamo un debito di gratitudine verso il movimento ambientalista per aver elevato la coscienza globale su temi come l’importanza della qualità dell’aria e dell’acqua e la conservazione della fauna, della flora e del paesaggio. È divertente notare, però, che se la piattaforma degli estremisti contrari alla biotecnologia venisse adottata, avrebbe serie conseguenze sia per l’ambiente che per l’umanità. Se i signori del «no» riusciranno a fermare la biotecnologia agricola, potrebbero affrettare le carestie e le crisi della biodiversità globale che pronosticano da circa quarant’anni.

Da un decennio, gli Stati Uniti producono quantità sempre più elevate di grano gene-spliced resistente agli insetti che rende quanto o più dei migliori ibridi tradizionali, ma con una minore necessità di pesticidi chimici. Non si sono osservati effetti negativi sulla salute o sull’ambiente. Tuttavia, c’è una lobby antibiotech accanita e straordinariamente forte, particolarmente in Europa, dove gli attivisti hanno convinto molti governi a bloccare le nuove autorizzazioni e si sono opposti all’impiego di grano e soia gene-spliced come aiuti nelle zone dell’Africa e dell’Asia colpite da carestia. Di recente, in paesi dell’Africa meridionale come lo Zambia, lo Zimbabwe e l’Angola, dove molte persone stanno morendo di fame, questo movimento contrario alla biotecnologia ha contribuito a persuadere le autorità governative a non accettare gli aiuti alimentari dagli Stati Uniti perché contenenti grano gene-spliced. Ma le caratteristiche di rischio-beneficio del gene-splicing, in generale, e di questo grano resistente agli insetti in modo particolare, sono straordinariamente favorevoli; questo rifiuto rappresenta un’indecente esagerazione del rischio.

Tragicamente, non è un caso isolato. Ci sono molti altri esempi di reazione eccessiva e di resistenza alla tecnologia. L’American Council on Science and Health ha documentato venti casi – fra cui quello dei pesticidi sui mirtilli nel 1959, quello dei presunti rischi dei ciclammati nel 1969, quello dell’«agente arancio» nel 1979, e dell’Alar sulle mele della costa del Pacifico nel 1989 – in cui le terribili storie strombazzate dai media sono state diffuse e ampiamente accettate, ma si sono poi dimostrate prive o quasi di conseguenze. La resistenza al gene-splicing è un ulteriore, sordido esempio di questo movimento antitecnologico, sostenitore della scienza spazzatura.

Nonostante i molti nuovi strumenti, efficaci e precisi, e la salute e il benessere maggiori che la scienza e la tecnologia ci hanno fornito, la nostra società è eccessivamente avversa al rischio. Siamo, ad esempio, ossessionati da impurità che sono rintracciabili a livelli di una parte per miliardo, mentre non molti anni fa avremmo definito puro un prodotto se gli adulteranti fossero stati presenti per meno di una per cinquecentomila parti. Non è infrequente che i regolatori si occupino dei livelli di contaminazione non perché siano preoccupanti, ma perché sono facilmente rintracciabili. Essi non regolamentano perché dovrebbero, ma perché possono. Tutto ciò è al contempo assurdo e dannoso. Talvolta, una maggiore sensibilità analitica richiede una maggiore perspicacia intellettuale.

I regolatori non sono soli nell’invocare margini sempre maggiori di sicurezza. Sembra che siamo nati con un istinto di resistenza al cambiamento e a considerare ciò che è nuovo con diffidenza, dimenticando quei problemi e quei rischi che erano facilmente tollerati in passato e che furono eliminati o ridotti attraverso le nuove tecnologie: vengono subito alla mente la clorazione dell’acqua, la pastorizzazione e le vaccinazioni. La nostra stessa ricchezza e il nostro benessere, resi possibili dalla tecnologia, oggi sembrano permetterci il lusso di fare a meno di ulteriori progressi. Tuttavia, siamo fortemente portati a paragonare questa situazione con quella dipinta dall’immortale osservazione, pronunciata al sorgere del XX secolo, del capo dell’ufficio brevetti degli Stati Uniti, il quale suggerì che l’ufficio venisse chiuso perché era chiaro che tutto ciò che era possibile inventare era stato inventato.

Dobbiamo essere più razionali nel nostro approccio ai rischi. Dobbiamo pensare in termini più ampi, riconoscendo, ad esempio, che il mondo non può nutrire 6,3 miliardi di persone con l’agricoltura biologica o alimentare città e industrie con l’energia eolica o solare.

Anche se dobbiamo essere prudenti nell’analizzare le nuove tecnologie, queste analisi non devono basarsi su assunti eccessivamente conservatori – o eccessivamente imprecisi – o essere influenzate dall’agenda anticapitalista, contro l’establishment e no global di pochi attivisti, o dall’interesse dei burocrati. Esse devono fare affidamento sulla buona scienza e sul buon senso. È facile dimenticare che la scienza offre più di un nucleo di conoscenza e di un procedimento per ottenere nuovo sapere. Non ci dice solo ciò che sappiamo, ma anche ciò che non sappiamo. Essa identifica aree di incertezza e fornisce una stima dell’ampiezza e dell’importanza
di quest’incertezza.

Gli autori di questo libro affrontano i problemi della nuova biotecnologia che sono emersi non dai limiti della tecnologia stessa o dalla scienza sottostante, ma dalle macchinazioni e dalle peregrinazioni dei policy-maker. Dobbiamo cominciare a risolvere quei problemi prima che sia troppo tardi.

© Lindau.
Da leggere: Norman Borlaug. The man who fed the world, sul Wall Street Journal.

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