Gli 83 anni del dittatore che nessuno ricorda

di Fausto Carioti

Il dittatore che ha sprofondato Cuba nel Terzo mondo, fatto uccidere per motivi politici 8.225 persone, incarcerato centinaia di migliaia di dissidenti e migliaia di omosessuali e costretto all’esilio due milioni di disperati, ieri ha compiuto 83 anni. Ma nessuno sembra essersene accorto. Il Fidel Castro di cui le cronache di questi giorni ci raccontano il compleanno non ha la grandezza storica e tragica dei despoti. Non sembra nemmeno avere mai avuto una dimensione politica. I media lo hanno elevato al rango di icona pop, e così l’anniversario di ieri ci viene raccontato con la stessa disinvolta simpatia che può essere dedicata ai 79 anni di Sean Connery o ai 66 di Mike Jagger.

Il tiranno malato ci viene rivenduto come una vecchia rockstar carismatica che tira fuori dal cassetto le foto della sua vita (all’Avana è stata allestita una rassegna di 35 istantanee), gioca a pallone con Diego Armando Maradona («Provate solo ad immaginare la scena: io che calcio un rigore contro Fidel Castro, pazzesco!») e scrive un libro di aforismi filosofici. Rispetto a certi ritrattini all’acqua di rose visti in questi giorni, decisamente più onesto Granma, l’organo ufficiale del regime. Dove si legge che ieri era «il compleanno del Soldato delle idee, del Leader della Rivoluzione, dell’Eterno Comandante in capo di Cuba, dell’uomo che ha sempre lottato per gli umili, con gli umili e per gli umili, del difensore della libertà, dell’indipendenza e della sovranità dei popoli, forgiatore di un mondo diverso migliore». Così, almeno, uno capisce subito che si tratta di un dittatore e dei suoi leccaculo.

Castro prese il potere agli inizi del 1959 promettendo ai suoi compatrioti non il comunismo di stampo sovietico, ma la libertà. E fino al 1961 si guardò bene dal dire che la sua era una «rivoluzione socialista» e tantomeno dal definirsi «comunista». Fu così bravo da ingannare persino gli americani. «Siamo stati noi a mettere al potere Castro», disse poi l’ambasciatore statunitense all’Havana, Earl T. Smith. Sul bilancio di questo mezzo secolo ognuno ha le sue idee, e ci sono rispettabilissimi signori (ben ritratti nel libro dedicato da Mario Vargas Llosa, Plinio Apuleyo Mendoza e Carlos Alberto Montaner al “Perfetto idiota latinoamericano”) convinti tuttora che Cuba sia il paradiso in Terra e che se c’è qualcosa che non funziona la colpa è dell’embargo americano, «antistorico e immorale» (per dirla con Gianni Minà, cheerleader italiana del dittatore). Ma i numeri parlano chiaro.

Intanto, non è vero che prima dell’arrivo al potere di Castro e dei suoi barbudos Cuba fosse in miseria. L’Atlante dello sviluppo economico scritto nel 1966 da Norton Ginsburg metteva l’isola al ventiduesimo posto tra le 122 nazioni prese in esame e le accreditava un numero di medici e dentisti, in proporzione alla popolazione, maggiore di Francia e Regno Unito, mentre la quantità di calorie assunta dai cubani superava del dieci per cento il livello minimo stabilito dalla Fao. Sull’isola circolavano 24 automobili ogni mille abitanti, dato più alto del Sud America. Cuba era all’avanguardia anche per numero di linee telefoniche ed aveva 23 stazioni televisive, più di ogni altro paese della regione. L’elenco potrebbe continuare.

Certo, era una ricchezza distribuita in modo ineguale. Ma cinquant’anni dopo a essere distribuita in modo più o meno uniforme è la miseria - con l’ovvia eccezione della cricca che vive attorno ai fratelli Castro. La coltivazione della canna da zucchero, che prima prosperava grazie al gioco del libero mercato tra coltivatori e acquirenti (tra cui gli industriali del rum), è stata messa in ginocchio dalle regole socialiste imposte dal regime. Il numero di linee telefoniche ed automobili per abitante è rimasto lo stesso del 1959. Gli investimenti esteri, un tempo copiosi, si sono azzerati. Le case e gli altri edifici cadono a pezzi. Cuba oggi è in fondo a tutte le classifiche sudamericane sulla ricchezza. Per sopperire al fabbisogno di proteine dei suoi connazionali, Castro ha provato persino a creare una razza “tascabile” di mucche - in modo che ogni famiglia potesse allevarne una, tipo cane da cortile - e razze giganti di rane e conigli. Con gli esiti tragici (per i poveri cubani e per i poveri animali) che si possono immaginare. Anche se il bilancio peggiore, ovviamente, è quello dei diritti umani e delle libertà individuali. Secondo Amnesty International ci sono ancora 54 prigionieri di coscienza rinchiusi nelle carceri del regime, e di democrazia e libertà d’espressione manco a parlarne.

Quanto all’embargo americano, la verità è che gli Stati Uniti vendono all’isola l’equivalente di 350 milioni di dollari di prodotti agricoli e consentono trasferimenti di soldi verso l’isola per un miliardo di dollari l’anno. Al resto pensa il tirannello venezuelano Hugo Chavez, che ha preso il posto di mamma Urss e ogni anno fornisce a Cuba sussidi per due miliardi di dollari.

Certo, oggi Cuba, su una popolazione di 11,4 milioni, conta 800mila professionisti, tra cui 65mila medici. Ma, come scrive Montaner, «solo un governante assolutamente incompetente può mantenere in povertà una società che possiede un simile capitale umano». Perché il problema non è l’indole della popolazione, e lo dimostrano anche gli esuli cubani fuggiti negli Stati Uniti e altrove, che hanno saputo sfruttare benissimo i vantaggi della democrazia e del capitalismo. Il problema è quel tipo che ieri ha compiuto 83 anni e che, alla faccia della Storia, continua a essere dipinto come un vecchio saggio, divertente e innocuo.

© Libero. Pubblicato il 14 agosto 2009.

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