Quattrocento milioni (nostri) per fare un favore alla Lega

di Fausto Carioti

Non c’è nessun motivo tecnico dietro alla decisione del governo di non far votare il referendum elettorale assieme alle elezioni europee e a molte amministrative, nel cosiddetto “election day” del 6 e 7 giugno. Tecnicamente, infatti, l’accorpamento chiesto da Mario Segni e Giovanni Guzzetta, promotori del referendum, è fattibilissimo. Tantomeno la scelta è dovuta a ragioni di interesse generale, visto che l’apertura dei seggi il 14 giugno, apposta per far votare il referendum, costerà 400 milioni di euro (nostri). Oltre che fattibile, dunque, l’inserimento delle schede referendarie tra quelle che verranno date in mano agli elettori il primo week-end di giugno è auspicabile dal punto di vista economico. Specie in tempi come questi, con il governo che è costretto a raschiare il fondo del barile. Il motivo della decisione, allora, è solo politico: la Lega teme il referendum, e ha avuto da Silvio Berlusconi il via libera per destinarlo al fallimento. E siccome al Viminale, dove si decide la data del voto, il ministro si chiama Roberto Maroni, il gioco è assai facile.

Chiamare gli elettori alle urne una settimana dopo l’election day, infatti, vuol dire usare la loro stanchezza da voto per puntare tutto sull’astensionismo. Il referendum, per essere valido, dovrà essere votato almeno dal cinquanta per cento degli elettori, e la storia insegna che si tratta di un quorum difficile da raggiungere anche quando non si è votato sette giorni prima. Tanto più che stavolta molti italiani dovranno recarsi di nuovo ai seggi il 21 giugno, per il secondo turno delle elezioni amministrative.

Il referendum, che in realtà si compone di tre quesiti, punta a dare il premio di maggioranza non più alle coalizioni tra partiti, ma solo alla singola lista che ottiene più voti. Il risultato sarebbe la creazione di un sistema più o meno bipartitico. Ai partiti satellite, anche se grossi come la Lega, non resterebbe infatti che confluire nei loro alleati più grossi, a meno di non voler diventare del tutto irrilevanti (il partito più votato, ottenuto il premio di maggioranza, non avrebbe alcun interesse a cedere potere e poltrone ad altri). Il Carroccio ne ha fatto una questione di vita o di morte. Il che è comprensibile, anche se sul fronte di Segni e Guzzetta c’è l’Italia dei Valori, dove Antonio Di Pietro resta attaccato al referendum in nome della sua vocazione di capopopolo ed anti-partitica.

Meno comprensibile è invece il modo con cui, da una parte e dall’altra, si è cavalcata la vicenda del referendum elettorale. Nel cui comitato promotore, nato due anni fa, spiccano, tra i tanti, i nomi di alcuni big del PdL, come Gianni Alemanno, Angelino Alfano, Renato Brunetta, Daniele Capezzone, Stefania Prestigiacomo e Gaetano Quagliariello. Mentre Gianfranco Fini fu uno dei primi firmatari. Molti di loro lo avranno fatto (anche) con l’intento di dare una spallata al governo Prodi: il referendum era un ottimo motivo per convincere i piccoli partiti del centrosinistra a puntare sulle elezioni anticipate per ritardare il più possibile lo svolgimento della consultazione. In parole povere, era una bomba a tempo sotto la sedia di Prodi. Ma gli esponenti del PdL che si fecero portabandiera dell’iniziativa sono anche convinti difensori del bipartitismo: perché, ora che la Lega vuole affossare un referendum che in teoria è anche loro, stanno tutti zitti? Ovvio, nessuno è così scemo da mandare in crisi un governo che ha davanti un’intera legislatura per cambiare la legge elettorale. Ma da qui a cedere supinamente al ricatto del Carroccio, che minaccia di far saltare l’esecutivo, ce ne passa.

Discorso non molto diverso nel Pd, dove aderirono al comitato di Segni e Guzzetta esponenti del calibro di Mercedes Bresso, Sergio Chiamparino, Giovanna Melandri, Arturo Parisi, Ermete Realacci e Stefano Ceccanti, il costituzionalista di Walter Veltroni. Anche in questo caso, almeno dalle parti dei veltroniani, è lecito supporre che non tutti fossero angosciati per gli effetti che il referendum avrebbe avuto sulla coalizione che sorreggeva Prodi. Del resto, Veltroni puntava tutto sull’autosufficienza dai piccoli partiti e non aveva alcun interesse ad aspettare anni per andare al voto, con Prodi che ogni giorno faceva perdere punti di consenso al centrosinistra. Anche se i più cinici, tanto per cambiare, furono i dalemiani, che erano (e restano) contrari al referendum, ma pur di evitare lo scioglimento delle camere e far slittare le elezioni politiche invocarono la nascita di un governo incaricato di far svolgere la consultazione.

È un po’ il destino di Segni essere usato da tutti e alla fine restare con le tasche vuote. Anche stavolta ci sono i presupposti perché ciò accada. Però qualcuno, specie al governo, dovrebbe uscire dal silenzio e quantomeno spiegare agli italiani perché, pur di fare contenta la Lega, si è deciso di spendere 400 milioni allo scopo di far fallire un referendum. Ci fosse un’opposizione vera (che certo non può avere la faccia di Dario Franceschini) sarebbe un ottimo argomento per incalzare sul serio l’esecutivo. Invece di invocare interventi irrealizzabili per i disoccupati.

© Libero. Pubblicato il 3 marzo 2009.

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