Il Pd a un passo dalla fine

di Fausto Carioti

Il destino vuole che nelle stesse ore in cui nasce ufficialmente il partito unitario del centrodestra venga certificato lo stato di agonia del partito unitario di centrosinistra. La fusione di Forza Italia e An nel Popolo della libertà era prevista. Lì dentro, nel bene e nel male, le cose sono chiare: è Silvio Berlusconi che decide e, una volta che ha scelto, margini di incertezza non ce ne sono. Certo, i problemi non mancano, ma riguardano soprattutto i rapporti con la Lega, cioè con un alleato che sta diventando troppo forte e pretende di trattare alla pari, almeno nelle regioni del Nord. La decomposizione del partito democratico, invece, proprio non era messa in conto. Di sicuro non così presto (si aspettavano almeno le elezioni europee di giugno) e non così devastante. Ed è la vera novità di questi giorni.

Smaltita la sbornia per la vittoria di Barack Obama, a largo del Nazareno, sede del condominio Pd, si è tornati a litigare sull’ingresso nel Partito socialista europeo, che quanto a modernità sta al Partito democratico americano come le sale bingo rionali stanno ai casinò di Las Vegas. Per gli ex margheritini, se dovesse passare l’affiliazione al Pse sarebbe la conferma che il Pd non è un nuovo partito, ma l’acquisto, a prezzi da saldo, degli ex dc di sinistra da parte degli ex comunisti. Con tutto quello che ne consegue nei rapporti con il Vaticano e con la Conferenza episcopale italiana, che non potrebbero accettare, come punti di riferimento, politici che si riconoscono in uno schieramento laicista e favorevole all’aborto. Sarà pure una questione di principio, insomma, ma per i cattolici del Pd è sufficiente a giustificare la fine del partito. Agli inizi di dicembre il Pd dovrà decidere se aderire al manifesto elettorale del Pse: comunque vada, qualcuno ne uscirà con le ossa rotte.

Ed è solo l’inizio. Si litiga su se e come trattare con Silvio Berlusconi. Su cosa fare dell’alleanza con Antonio Di Pietro. Sulla possibile alleanza con Pier Ferdinando Casini. Se siano stati più figli di buona donna i dalemiani a “inciuciare” con gli uomini del Pdl, per far eleggere Riccardo Villari alla presidenza della Commissione di vigilanza sulla Rai, o più incapaci Veltroni e i suoi a gestire l’intera faccenda. Se fare un congresso (cioè se mettere in discussione la poltrona di Veltroni) prima o dopo le elezioni europee. L’ultima bomba l’ha tirata Sergio Chiamparino, sindaco di Torino e ministro-ombra per le Riforme. Ha detto che il Pd del Nord deve organizzarsi da solo e darsi un leader diverso da quello nazionale, decidendo in modo autonomo anche alleanze e programmi. Chiaro che il segretario di questo Pd nordista, espressione del partito nelle regioni che valgono il 55% del prodotto interno lordo italiano, conterebbe molto di più del leader del Pd di Roma. Chiamparino la chiama federazione, ma sembra piuttosto una secessione messa in atto di corsa per salvare il salvabile.

Sottovoce (ma manco poi tanto) sono sempre di più quelli che dicono che la creazione del Pd è stata un errore, e che sarebbe meglio tornare ai due partiti separati, Ds e Margherita, ognuno libero di prendere la sua strada. Come dire che Veltroni ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare. Soprattutto, il concetto che il partito democratico sia a un passo dalla morte ormai viene espresso a voce alta: la fine non è più un tabù, ma un’eventualità concreta. Massimo Cacciari dice che «o Veltroni sopravvive alle Europee e alle amministrative o si sfascia il Pd». Senza chiarire, per carità di patria, quale dei due eventi consideri più probabile. Gianni Vernetti, rutelliano ed ex sottosegretario agli Esteri, avverte i Ds: «Chi vuole i democratici nel Pse sappia che il Pd corre il rischio di concludere la propria esperienza». E anche sull’Unità ormai si può leggere che «la riedizione di uno scontro tra Veltroni e D’Alema segnerebbe la fine del partito».

Intanto il “sangue nuovo” che Veltroni aveva portato nel Pd per farne qualcosa di più forte della somma di due vecchi partiti non dà segno della propria esistenza, come la giovane deputata Maria Anna Madia. Oppure, come Irene Tinagli, economista di 33 anni specializzata a Pittsburgh, si fa notare perché lascia la direzione nazionale del Pd dicendosi «sconcertata» dalle scelte prese dal partito, iniziando dalle motivazioni con cui si è opposto al decreto Gelmini.

Se nel Pd ormai si lotta per la sopravvivenza, nella coalizione di centrodestra lo scontro riguarda chi deve comandare laddove si vince, ed è cosa ben diversa. Ma l’atmosfera è pesante lo stesso, e lo sarà sino alle elezioni europee, perché da qui ad allora la competizione vera sarà tra alleati. I sondaggi danno la Lega all’11 per cento sul territorio nazionale. Soprattutto, è il primo partito in Veneto ed è a un soffio dall’esserlo in Lombardia, dove tallona di poco il Pdl. Il Carroccio vola anche in Emilia-Romagna, con la differenza che qui toglie voti anche al Pd, mentre in Veneto e Lombardia li prende quasi tutti agli alleati di governo. La ragione è chiara: Berlusconi risente della crisi economica e degli ostacoli che l’esecutivo deve superare. Umberto Bossi, leader di un partito di lotta e di governo, riesce invece a sembrare “all’opposizione” anche quando guida una pattuglia di quattro ministri. La sua ascesa elettorale sarà un problema per Berlusconi, che dovrà concedere poltrone di primo livello all’alleato che cresce. Ma è anche uno schiaffo per Veltroni: se nelle regioni più ricche del Nord il Pd si riduce a fare il terzo partito, superato anche dalla Lega, vuol dire che l’ex sindaco di Roma non ha proprio idea di cosa chieda la parte più importante del Paese.

© Libero. Pubblicato il 23 novembre 2008.

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