Cercavano Mussolini, hanno trovato Veltroni

di Fausto Carioti

Il giochino è un po' infantile, ma il centrosinistra italiano, tornato all'anno zero, ci prova un gran gusto. Da quando Gianni Alemanno è diventato sindaco, ogni aggressione, ogni tafferuglio, ogni «vaffa» che vola nella capitale viene rivenduto da esponenti e giornali dell'opposizione come la prova definitiva che Roma è tornata ad essere il bivacco delle camicie nere. Il rischio, quando ci si entusiasma in certi giochi da bambini, è quello di pestarne una grossa e imbrattarsi di brutto. Ed è proprio quello che è accaduto con i fatti del Pigneto.

Il pomeriggio di sabato 24 maggio, in questo popolare quartiere romano, una ventina di giovani, al seguito di un uomo di mezza età, hanno assalito alcuni negozi di immigrati, sfasciando vetrine e provocando danni ai locali. Il giorno dopo Repubblica titolava: «Raid neonazista al Pigneto». In realtà non c'erano immagini né testimonianze che accusassero la destra. C'era il racconto isolato della giornalista di un'agenzia, in attesa dal parrucchiere, che sosteneva di aver visto una svastica (sì, una) su una bandana. Gli altri che avevano assistito alla scena negavano. La questura smentiva subito ogni movente politico. Ma tanto è bastato. Così, in un articolo da ritagliare e conservare, il giornalista dell'Unità Bruno Gravagnuolo arrivava a scomodare la repubblica di Salò ed Ezra Pound per evocare «rivincite neofasciste sul filo della discontinuità repubblicana». Il suo direttore, Antonio Padellaro, denunciava la presenza di «svastiche» sul luogo (occhio: dal singolare intanto siamo passati al plurale). Ad Alemanno, che diceva di non vedere una matrice politica dietro quel gesto, Padellaro rispondeva vibrante che «nulla è più politico del vento fetido della violenza di strada che si organizza in giustizieri della notte e bande di energumeni dediti alla pulizia etnica e di ogni altra diversità dalla pura razza ariana». Per non essere da meno, la candidata alla successione di Padellaro, Concita De Gregorio, su Repubblica denunciava con sdegno «la nuova aria che si respira» nella capitale, intrisa di violenza xenofoba. Per ragioni di spazio si risparmiano al lettore i titoli e i commenti con la bava alla bocca apparsi su Manifesto e Liberazione. Il Tg1 di Gianni Riotta, intanto, serviva per cena ai telespettatori la bufala del pogrom naziskin.

La classe politica di centrosinistra non era da meno. Walter Veltroni controfirmava gli allarmi sul ritorno delle svastiche. Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, dava la colpa alla «offensiva culturale che la destra sta costruendo da mesi». La sparavano grossa in tanti, ma il premio per l'impegno va dato a Oliviero Diliberto, che incolpava direttamente Silvio Berlusconi: «Il raid al Pigneto è il frutto avvelenato del clima xenofobo indotto dalle politiche del governo».

La verità, che finora si poteva cogliere solo in certe mezze rivelazioni degli investigatori, è venuta a galla ieri. E - guarda un po' - non c'entrano nulla il fascismo né la razza ariana né la xenofobia né la pulizia etnica. A dirla tutta, non c'entrano niente manco Alemanno e Berlusconi, e tanto meno la «nuova aria» che si respira a Roma. E sì, perché l'uomo alla testa della spedizione punitiva è un ruspante borgataro “de sinistra”. Uno che le svastiche le detesta. In compenso, tatuato sull'avambraccio, ben visibile, porta il ritratto di Ernesto “Che” Guevara (capito, Diliberto?). A proposito: durante l'aggressione l'uomo indossava una polo a maniche corte, ma nessuno - caso strano - sembra aver notato il tatuaggio. In compenso, c'è chi ha avuto la visione della croce uncinata. Il suo racconto, che concorda con la ricostruzione degli inquirenti, è diventato pubblico grazie a Carlo Bonini, di Repubblica, uno dei pochi giornalisti ad aver capito subito che la pista politica era una spiegazione tanto facile quanto sbagliata.

L'uomo, che ieri si è consegnato alla Digos di Roma, ha 48 anni e si chiama Dario Chianelli. A Repubblica ha spiegato a modo suo i motivi che lo hanno spinto. Che sono più difficili da giudicare di quanto si creda. Premessa: «La politica non c'entra un cazzo. Destra e sinistra si devono rassegnare. Non c'entrano un cazzo le razze. Non c'entra - com'è che se dice? - la xenofobia. C'entra il rispetto». La sua storia inizia giovedì 22: «A metà mattina, a una donna di cui non faccio il nome, rubano il portafoglio in via Macerata. Non faceva che piangere. Un amico mio - un immigrato, pensa un po' - mi dice che se lo voglio ritrovare devo andare nel negozio di quell'infame bugiardo dell'indiano. In via Macerata. Perché il ladro sta lì». Venerdì Chianelli si presenta nel negozio, dove il ladro, «un marocchino», racconta, gli risponde di tornare nel pomeriggio per riavere il portafoglio senza i soldi, ma con i documenti. Il pomeriggio però il ladro non gli dà nulla, e il giorno dopo gli dice che i documenti li ha buttati nella buca delle lettere.

Chianelli s'incavola e sabato pomeriggio torna nel negozio con l'intenzione di «sfasciare tutto». Solo che nel frattempo - dice lui - la voce si è sparsa e tanti «pischelli» del quartiere si sono messi in testa di aiutarlo. Fascisti, almeno loro? Macché. Il compagno Chianelli s'indigna: «Io davvero non riesco a capire come si sono inventati la storia della svastica. Ma quale svastica? Io questi pischelli non li conosco personalmente, ma mi dicono che sono tutto tranne che fascisti. E comunque svastiche non ce n'erano. Quei pischelli, per quanto ne so, si fanno il culo dalla mattina alla sera. E hanno solo un problema. Si sono rotti di vedere la madre, la sorella o la nonna piangere la sera, perché qualche vigliacco gli ha sputato o gli ha fischiato dietro il culo. E poi, hai mai visto tu un raid nazista senza una scritta su un muro? Qualcuno si è chiesto perché nessuno ha toccato per esempio i sette senegalesi che vendevano i cd taroccati in via Macerata? Perché i senegalesi non avevano fatto niente. Perché sono amici».

E come mai, allora, «i pischelli» se la sono presa anche con un negozio di bengalesi lì vicino? Chianelli ha una teoria: «Perché quell'alimentari là, quello dove è andato a chiedere scusa Alemanno, due anni fa l'avevano chiuso per spaccio. Perché sotto il sacco dei ceci che dice di vendere, il bengalese ci teneva la droga. So che è andato assolto perché ha detto che la roba la nascondeva un marocchino. Sta di fatto che lì davanti è sempre un circo. Stanno sempre aperti. Anche alle cinque de mattina. Mi spieghi che si vendono?».

Ecco, dunque, che fine triste ha fatto il teorema della spedizione fascista. Davano la colpa di tutte le violenze alla marcia su Roma di Alemanno. E ora scoprono che il marcio su Roma è quello dei poveracci, per giunta di sinistra, ridotti a farsi giustizia da soli contro ladri e spacciatori immigrati che «la città dell'accoglienza e dell'integrazione» ha fatto finta di non vedere. Evocavano lo spettro di Benito Mussolini, i campioni della buona stampa progressista, e hanno trovato il multiculturalismo alla vaccinara di Veltroni.

Ovviamente, la lezione non servirà a niente. Ieri l'Unità “spiegava” così l'aggressione al popolare ballerino albanese Kledi Kadiu, avvenuta il giorno prima: «È emergenza xenofobia nella capitale. Dopo l'assalto ad alcuni negozi di immigrati regolari al Pigneto, ieri l'aggressione a un personaggio pubblico. Segno di una violenza che non risparmia nessuno». Il sito web del quotidiano “approfondiva” l'analisi: «Il quartiere Appio, dove è avvenuta l'aggressione, è un quartiere tradizionalmente a forte insediamento per l'estrema destra romana». Sarebbe bastata una telefonata agli investigatori per capire che Kadiu era stato attaccato perché aveva provato a fermare alcuni individui intenti a riprendere con le videocamere i giovani allievi della sua scuola di danza. I suoi assalitori, insomma, erano mossi da motivazioni morbose, più squallide persino del razzismo. Di sicuro, anche in questo caso la politica non c'entra nulla. Vaglielo a spiegare. Avanti così, compagni.

© Libero. Pubblicato il 30 maggio 2008.

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