Le ragioni dei cinesi

di Fausto Carioti

Eppure siamo tutti cinesi. Guardando ai disordini scoppiati nella Chinatown milanese, imprenditori e contribuenti farebbero bene a realizzare che un po' cantonesi qui in Italia lo siamo tutti, e che spellarsi le mani per applaudire uno Stato che leva l'automobile a un commerciante perché l'ha usata per trasportare qualche scatola di scarpe in negozio è come applaudire il proprio torturatore perché stavolta ha preferito infierire su qualcun altro. Una soddisfazione forse comprensibile dal punto di vista umano, ma di certo alquanto miope: passata la smania momentanea per i cinesi, i prossimi a finire impiccati ai lacci e ai lacciuoli della nostra legislazione torneranno a essere i tartassati italiani. Perché va bene il principio del "rule of law", il rispetto della legge e il fatto che essa debba valere per tutti. Ma se la legge è vessatoria e chi la dovrebbe applicare è forte con i deboli e debole con i forti (almeno a Roma funziona così), incavolarsi è doveroso, qualunque passaporto si abbia in tasca. E tra lo Stato italiano che usa i nostri soldi per metterci i bastoni tra le ruote anche mentre lavoriamo e chi dorme in dieci in una stanza per portarci in tavola involtini primavera a 2 euro e 50 centesimi, non è difficile scegliere chi meriti di essere difeso.

La "rivolta dei cinesi" - che giustamente gli agenti hanno represso con la forza: sul loro intervento contro chi aveva deciso di ricorrere alla violenza non si discute - è scoppiata perché una coppia di commercianti immigrati si è permessa di portare alcune scatole di scarpe in negozio con la loro vettura privata. «Trasporto irregolare», hanno sentenziato i vigili. E la punizione non è stata una multa da cento o duecento euro, come sarebbe sembrato sensato, ma il ritiro del mezzo. «Senza auto non posso lavorare», ha mormorato il negoziante cinese, il quale forse si era illuso che abbandonando la madrepatria si sarebbe lasciato alle spalle pure il socialismo reale e uno Stato che se le inventa tutte per svuotarti le tasche. Benvenuto in Italia: basta guardare le prime cariche dello Stato - un ex comunista alla presidenza della repubblica, un sindacalista a quella del Senato, un comunista irriducibile alla guida di Montecitorio e un burocrate dirigista alla presidenza del Consiglio - per capire chi comanda da queste parti.

Hanno sacrosanta ragione gli imprenditori italiani che chiedono di vedere i loro concorrenti cinesi sottoposti alle stesse leggi che governano tutte le aziende del Paese. Ed è vero che nella comunità cinese in Italia oggi ci sono moltissime aree d'illegalità. La soluzione, come insegnano i testi classici, dovrebbe essere però quella di applicare - a tutti, italiani e immigrati - "pene miti ma certe". Invece accade l'esatto contrario. Le sanzioni sono tutt'altro che sicure, e colpiranno sì e no un trasgressore su cento. In compenso, chi viene scoperto a commettere un reato, fosse pure il trasporto di articoli da negozio sulla propria vettura privata, è costretto a espiare anche le colpe di tutti quelli che la fanno franca. Il risultato è che si continua a violare la legge, confidando nel fatto che le probabilità di essere scoperti sono bassissime. Un esempio da manuale su come sanzioni durissime possano essere allo stesso tempo inefficaci.

Quanto al proposito di applicare la legge in modo che sia uguale per tutti, si tratta di un nobile principio, che però deve essere messo in pratica sul serio. Cosa che oggi non accade. A Roma, per capirsi, il posto migliore dove parcheggiare l'automobile sul marciapiede è piazzale Clodio, davanti al tribunale. Le vetture parcheggiate in aperta violazione della legge sono centinaia, ma contravvenzioni sui parabrezza non se ne vedono. Non è difficile intuire che chi dovrebbe farle preferisce non complicarsi la vita a litigare con i proprietari di quelle automobili, in gran parte magistrati, avvocati e uomini delle forze dell'ordine. Ovvero quelli che le leggi dovrebbero applicarle. Ed è ridicolo accusare i cinesi di sfruttare il lavoro nero dei loro connazionali quando al Senato e alla Camera, come tutti gli addetti ai lavori sanno e come ha mostrato una recente inchiesta televisiva delle Iene, i primi a pagare in nero (e a cifre spesso da fame) i loro collaboratori sono gli stessi parlamentari. Ovvero quelli che le leggi le scrivono.

Come sempre in questi casi, c'è poi il rischio che si passi subito all'equazione «cinesi uguale delinquenti». Mentre basta dare un'occhiata attenta ai numeri per capire che la comunità cinese, assieme alla filippina, è quella che meglio si è saputa adattare alle leggi italiane: gente che, nella grandissima maggioranza dei casi, sgobba sodo dalla mattina alla sera, stringe la cinghia e si guarda bene dal creare problemi di ordine pubblico. I cinesi in Italia, oggi, sono 150mila. Vuol dire che, ogni 100 immigrati, 5 sono di nazionalità cinese. Eppure, se guardiamo dentro le carceri italiane, la presenza dei cinesi è quasi inesistente. Alla fine di marzo, secondo i dati del ministero della Giustizia, nelle nostre prigioni "soggiornavano" 14.571 stranieri, pari al 35% dell'intera popolazione carceraria. Ma i cinesi dietro le sbarre erano appena 238, l'1,6% del totale dei carcerati stranieri. Pur rappresentando la quinta comunità di immigrati in Italia per consistenza numerica, i cinesi sono solo decimi nella classifica dei più denunciati. Una "hit parade" delle illegalità che continua a essere guidata dai marocchini (i quali, pur essendo il 10% degli stranieri, raccolgono quasi il 17% delle denunce), seguiti da rumeni, albanesi, senegalesi e tunisini. Insomma, diciamolo: fossero tutti come i cinesi, l'immigrazione oggi non sarebbe in cima ai nostri problemi.

© Libero. Pubblicato il 20 aprile 2007.

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