Il linguaggio torbido del Manifesto

di Fausto Carioti

Spesso Valentino Parlato, fondatore e prima firma del Manifesto, ha il pregio di parlare chiaro. Spesso, non sempre. Ieri, in una delle occasioni in cui avrebbe dovuto essere davvero limpido - inutile girarci attorno: tra i suoi lettori ci sono anche quelli che si muovono nella zona grigia al confine tra la protesta e l’eversione armata - ha scelto di non esserlo. I suoi ragionamenti si sono rivelati torbidi, le sue perifrasi paracule, la sua analisi ambigua. Si capisce poco, nell’editoriale che ha dedicato ai quindici arresti compiuti tra le Nuove Br, e quel poco che s’intende fa paura.

Non si capisce, ad esempio, il punto più importante della faccenda, e cioè se queste Nuove Brigate Rosse, decimate (si spera) dal blitz di polizia e magistrati milanesi, siano da prendere sul serio oppure no. No, pare di capire, giacché Parlato definisce l’intera storia «una farsa», mentre i terroristi che avevano progettato l’uccisione dell’economista Piero Ichino, l’attentato esplosivo alla redazione di Libero e altri attentati del genere li chiama «presunti» e «velleitari», insistendo che la loro è semplicemente una «farsesca velleità di violenza», che certo, «poteva e può anche essere omicida», ma sempre di farsa si tratta. Domanda a Parlato: posto che la farsa, come ricorda il dizionario italiano, è una «impresa ridicola, priva di serietà e di valore», che significa parlare di «farsa omicida»? Il fondatore del Manifesto vede qualcosa di ridicolo nel pianificare di ammazzare qualcuno e venire fermati a un passo dall’esecuzione? Se c’è, questo elemento comico e burlesco, vuole essere così paziente da spiegarlo bene a noi e agli altri suoi lettori? Altrimenti, non resta che una spiegazione: la sola farsa è quella di Parlato, che si arrampica sugli specchi per minimizzare il disegno dei terroristi rossi e fare distinguo pelosi.

Né si capisce se, secondo lui, ai vertici della Cgil qualcuno adesso debba porsi domande molto serie oppure no. Del resto, ben otto degli arrestati avevano in tasca la tessera del sindacato di Corso Italia, e cinque di questi aderivano alla Fiom, la sigla dei metalmeccanici che fa capo alla confederazione di Guglielmo Epifani. Ma la risposta, anche in questo caso, pare essere negativa. «Certo», scrive Parlato, «alcuni di questi presunti o velleitari terroristi sono iscritti alla Cgil o alla Fiom, ma questo non può assolutamente ledere il prestigio della Cgil o della Fiom». Notare l’avverbio. Ma se non lede «assolutamente» il prestigio di un’organizzazione - qualunque essa sia, da un sindacato al circolo degli scacchi - il fatto che otto suoi esponenti siano scoperti alle prese con armi ed esplosivi, in cerca del primo edificio da far saltare in aria o del primo cristiano da ammazzare, non si comprende cosa altro possa farlo. Per dire: se otto iscritti ad Alleanza nazionale fossero stati arrestati mentre pianificavano una serie di attentati di matrice nera, qualche domandina sul «prestigio» del partito ce la saremmo posta tutti, Parlato per primo. La comoda assoluzione che il Manifesto regala alla Cgil conferma che nemmeno tra i suoi intellettuali di spicco la sinistra ha voglia di vedere chiaro nel marcio che ha dentro.

In compenso, quel che si capisce del giudizio che Parlato dà delle Br di Mario Moretti, Prospero Gallinari e Renato Curcio basta per far rabbrividire: «Anche le Brigate Rosse non erano gran cosa e furono estremamente dannose all’Italia e anche a quella che allora era la classe operaia». A parte che le Br furono «estremamente dannose» innanzitutto per quelli che uccisero, rapirono, gambizzarono e resero orfani e vedove, come fa Parlato a dire che il terrorismo brigatista in Italia non è stato «gran cosa»? Una lunga scia di sangue iniziata l’8 giugno del 1976, con l’omicidio del giudice Francesco Coco e dei due carabinieri che lo scortavano, e passata per la strage di via Fani, l’assassinio di Aldo Moro, l’osceno rituale compiuto col trinciapollo sul corpo di Giuseppe Taliercio e centinaia di altri attentati, arrivando a un totale di 86 omicidi solo tra quelli rivendicati direttamente dalle Br negli anni di piombo: se non è «una gran cosa» questa, per Parlato, cos’altro lo è? Negare l’evidenza macroscopica ancora oggi, a distanza di trent’anni, svela quanto primitiva sia stata finora l’autoanalisi della sinistra italiana sul periodo più buio della sua storia.

Chi non si è nascosto dietro a un dito è Riccardo Barenghi, che del Manifesto è un ex direttore. Sulla Stampa di ieri, Barenghi ha sostenuto una tesi esattamente opposta a quella di Parlato. E cioè che «l’operazione contro le nuove Brigate Rosse (nuove ma con radici antiche) è una cosa seria. Tanto seria e grave che non può non provocare preoccupazione e allarme, visto che ci troviamo di fronte a un fenomeno - quello appunto del terrorismo brigatista - che sembra non voler morire mai». Parlato no, preferisce vendere ai suoi lettori la favoletta rassicurante della «farsa»: nuova, ennesima versione ricalcata sul cliché delle «sedicenti Brigate Rosse». A furia di ripetere che gli unici criminali sono quelli con la divisa dell’esercito americano, se ne sono convinti anche i più intelligenti tra loro. Che pena, che tristezza.

© Libero. Pubblicato il 14 febbraio 2007.

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