La solitudine di Prodi

di Fausto Carioti

Il Romano Prodi über alles, sotto il cui sguardo compiacente si annunciava la fusione tra Banca Intesa e Sanpaolo (sfidando così i Ds sul terreno loro più congeniale, quello dell'alta finanza), il Prodi decisionista con la mascella volitiva, che portava i soldati italiani in Libano e costringeva tre quarti della Casa delle libertà a dire sì alla "sua" missione, non c'è più. Si è sgonfiato nel giro di poche ore, come un soufflé riuscito male. Al suo posto è riapparso il Prodi debole e nervoso dei momenti peggiori, un po' Tafazzi e un po' Fantozzi, con la fronte sudata e lo sguardo da talpa. Irriso dagli avversari e sopportato con sempre più malcelato fastidio dai suoi alleati. Un uomo solo al comando, molto solo e con poco comando, vista l'irruenza con cui il mondo che lo circonda gli si è rivoltato contro. Un leader di coalizione che sta pagando a caro prezzo il suo peccato originale: quello di non essere il leader di alcun partito. Hai voglia a dire che il suo partito è l'Ulivo e altre amenità del genere. Balle. Nell'ora del pericolo un premier ha bisogno di qualcuno disposto a fargli scudo col corpo, ha bisogno di senatori e deputati e capigruppo e ministri che impongano la sua linea agli alleati. Prodi, al massimo, può contare sul silenzio di un factotum pasticcione come Angelo Rovati, sull'amicizia di Silvio Sircana e sulle profonde elucubrazioni di Arturo Parisi. Col risultato che adesso si trova in prima linea da solo. Ne uscirà vivo, ma con addosso tante di quelle ferite che è in dubbio sin d'ora se a fine dicembre, al termine di quella via crucis chiamata legge Finanziaria, potrà ancora reggersi in piedi.

Gli schiaffi peggiori Prodi li ha ricevuti da sinistra. Il primo segnale, molto chiaro, gli è arrivato il 15 settembre da Ezio Mauro: «Il prossimo incontro tra un grande imprenditore e un capo di governo», ha scritto il direttore di Repubblica, «avvenga a palazzo Chigi o almeno in una prefettura, dove non ci sono consiglieri ma c’è una bandiera della Repubblica». In aperta polemica con Prodi, Gianfranco Pasquino, sull’Unità, il 19 settembre gli ha impartito la lezioncina di democrazia: «Non è mai “una cosa da matti” per il governo accettare il confronto (e, eventualmente, lo scontro) con l’opposizione in Parlamento. Anzi, è il comportamento più raccomandabile dal punto di vista democratico». Lo stesso giorno, il Manifesto lo paragonava nientemeno che al Babau di Arcore, denunciandone «dichiarazioni e gesti che se fossero stati di Berlusconi avrebbero fatto gridare allo scandalo».

Ancora più male, però, ha fatto a Prodi il fuoco amico dei partiti che lo sostengono. I Ds, la Margherita, i radicali e persino Fausto Bertinotti, in pubblico (con toni comprensivi) e soprattutto in privato (con toni spesso ultimativi) lo hanno invitato ad assumersi le sue responsabilità. Rovati, l’uomo che ha dato origine a tutti i guai inviando a Tronchetti Provera un piano di riassetto del gruppo Telecom scritto su carta intestata della presidenza del Consiglio, era il suo più stretto collaboratore: sta a Prodi, dunque, giocarsi la faccia in Parlamento per spiegare una simile ingerenza negli affari di un gruppo privato quotato in Borsa.

È con loro che Prodi ce l’ha più che con chiunque altro: con gli alleati inaffidabili, i quali non hanno capito che se va a fondo lui vanno a fondo anche loro (ma sarà vero? O non sarà, piuttosto, che l’unico che rischia di andare a fondo con Prodi è il futuribile partito democratico, del quale non frega niente a nessuno?). Cornuto e mazziato, il premier è in piena crisi di nervi. Solo una satira militante quale quella italiana potrà farsi sfuggire perle come l’uscita che Prodi, rifiutandosi di andare in Senato, ha dedicato ieri agli alleati, definendosi «per metà primo ministro e per metà assistente sociale», e la gaffe sulla sicurezza di papa Ratzinger: a domanda su chi difenderà il pontefice dalle minacce che arrivano dalla Turchia, il premier ha risposto isterico: «Alla sicurezza del papa ci penseranno le sue guardie, cosa volete che vi dica...». L’incontro che Prodi ha poi avuto con il dittatore iraniano Mahmoud Ahmadinejad non è certo servito a risollevare l’immagine del premier italiano. Normale che nessuno, tra gli alleati, ma anche tra i più stretti collaboratori del presidente del Consiglio, riesca a perdonargli la colossale sequela di errori di comunicazione messi in fila nell’ultima settimana.

Parte dei Ds e della Margherita, oltre ai radicali, guardano poi con orrore all’ipotesi prodiana di trasformare la Cassa depositi e prestiti in una nuova Iri, grazie alla quale saldare le fortune del premier a quelle di Comunisti italiani, rifondaroli e Verdi. L’ipotesi neodirigista vede contraria anche la Confindustria, col risultato che il Sole-24 Ore si è aggiunto alla lista dei quotidiani che ogni giorno esprimono la loro delusione per chi aveva promesso di portare la serietà al governo.

Il risultato è che l’indice di fiducia dell’elettorato nei confronti di Prodi è sceso ai minimi storici: dal 45 per cento di inizio legislatura al 38 per cento. Si tratta di monitoraggi realizzati da Euromedia Research, vicina a Silvio Berlusconi, ma i risultati coincidono, nella sostanza, con le rilevazioni di cui dispone l’Unione. Nei giorni scorsi il quotidiano della Margherita avvertiva Prodi e la maggioranza: «Per la prima volta da almeno tre anni» l’indice che registra la “profezia” degli elettori su chi vincerà le elezioni vede in vantaggio il centrodestra, e anche l’indicatore che registra a chi gli italiani danno la loro fiducia premia la Cdl. La quale, per parlare chiaro, in tutta questa storia sta campando di rendita sugli errori altrui. L’unico impegno che dovrebbe rispettare, e cioè presentarsi a ranghi completi al Senato ogni volta che si vota, riesce puntualmente a disattenderlo. Anche ieri mancavano all’appello cinque senatori: fossero stati presenti, avrebbero garantito la sconfitta dell’Unione per il secondo giorno consecutivo.

© Libero. Pubblicato il 21 settembre 2006.

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