I primi frutti dell'antisemitismo europeo

Piccoli segnali. Appena percettibili, facili da ignorare. E' sempre così che inizia. Anche la grande pestilenza raccontata da Albert Camus inizia con un topo morto in mezzo al pianerottolo. Che il portiere del palazzo si rifiuta di vedere («Il dottore ebbe un bel dirgli che ce n'era uno sul pianerottolo, del primo piano, e probabilmente morto: la persuasione di Michel restava intatta. Non vi erano sorci in casa; doveva quindi, quello là, essere stato portato da fuori. In breve, si trattava di uno scherzo»).

Tre anni fa il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut lanciava l'allarme nel suo libro "Nel nome dell'Altro": «Quello che si credeva fosse ormai un dato acquisito, oggi, retrospettivamente, ci appare solo come una semplice interruzione. Ed è in Francia, il Paese europeo con il più alto numero d'ebrei, che la parentesi, e nella maniera più brutale, viene chiusa. S'incendiano le sinagoghe, molti rabbini vengono molestati, dei cimiteri profanati, alcune istituzioni comunitarie ma anche delle università devono far ripulire, durante il giorno, i loro muri imbrattati, nella notte, da scritte oscene. Ci vuole del coraggio per indossare una kippa nella metropolitana parigina e in quei luoghi feroci che chiamano cités sensibles; il sionismo è criminalizzato da un numero sempre più ampio d'intellettuali, l'insegnamento della Shoah si rivela impossibile proprio nel momento in cui diventa obbligatorio, la scoperta dell'Antichità lascia gli ebrei in balia dei lazzi infantili, l'ingiuria "sporco ebreo" ha fatto la sua riapparizione in modo mascherato nelle scuole. Gli ebrei hanno il cuore pesante e, per la prima volta dopo la guerra, hanno paura».

Gerusalemme, oggi. La notizia è che gli ebrei francesi stanno lasciando la Francia. Non è un esodo di massa: fosse così, lo avremmo già letto da qualche parte, persino in Italia. E' invece un processo lento ma costante, i cui numeri si fanno ogni anno più importanti. La grande maggioranza di quelli che se ne vanno, ovviamente, sceglie di fare aliya, ovvero di andare a vivere in Israele. Tra il 2000 e il 2005 se ne sono andati in 11.148. Il record si è avuto proprio nel 2005, con 3.300 ebrei immigrati in Israele dalla Francia: il numero più alto degli ultimi 35 anni. Nel 2006, probabilmente, nonostante la guerra con il Libano, saranno ancora di più. Il 25 luglio sono arrivati in Israele dalla Francia 650 immigrati ebrei, il più alto numero che si sia registrato in un solo giorno dal 1971. Il tutto su una popolazione ebrea francese stimata in circa 600mila individui.

I motivi sono diversi, certo. Non tutto si spiega con l'antisemitismo francese. Il richiamo verso la terra promessa sarebbe forte comunque. E il governo di Tel Aviv le sta inventando tutte per convincere gli ebrei francesi a trasferirsi in Israele. Ma è un dato di fatto che questa ondata migratoria è cresciuta con l'aumentare degli attentati contro gli ebrei francesi. «Anche se i motivi per fare aliya variano da una famiglia all'altra», scrive il Jerusalem Post, «nessuno mette in discussione il fatto che essere ebreo in Francia si sia fatto più difficile negli ultimi sei anni. (...) Gli intellettuali francesi sono imperturbabilmente anti-israeliani, e il governo francese ha mostrato spesso pregiudizi pro-arabi e pro-palestinesi, sin dal clamoroso successo di Israele nella guerra dei sei giorni del 1967. Con l'inizio della seconda intifada nel settembre del 2000, gli ebrei francesi hanno iniziato ad assistere a un rapido incremento dell'anti-semitismo, con incidenti e attacchi violenti quali non si vedevano dagli anni Quaranta. Molti di questi incidenti sono stati provocati da immigrati musulmani». Simon Kohana, presidente del Forum francese dei cittadini ebrei, la spiega così: «Abbiamo iniziato a chiederci se possiamo continuare a stare in Francia. Siamo davvero cittadini francesi? Abbiamo la sensazione di essere una popolazione a parte».

Piccoli segnali. E un odore di topo morto che si leva dal primo piano del condominio Europa e si fa sempre più forte.

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