Sgretolamento lento

Romano Prodi non vive sulla Luna, anche se a volte dà l'impressione di avervi lasciato tre quarti dei propri neuroni. E' che non ha alternative, anche se tutto ciò che gli sta intorno gli sta crollando addosso. Pezzo dopo pezzo.

Primo. Anna Finocchiaro (Ds) gli manda un avvertimento che più chiaro non è possibile. Gli dice che «non si può andare avanti a colpi di fiducia», che occorre «trovare la cifra del lavoro comune con le opposizioni», che la situazione che vivendo l'Unione al Senato non è «sexy», come millanta Prodi, ma «da infarto». Per la cronaca: la Finocchiaro è la capogruppo dell'Ulivo al Senato. E' lei, cioè, il "generale" incaricato di coordinare e mobilitare i senatori della maggioranza in tutte le votazioni, specie quelle di fiducia. In altre parole, è la persona cui i leader della sinistra hanno affidato la sopravvivenza politica di Prodi e del suo governo. Può stare simpatica o meno, ma è donna con gli attributi, non certo facile ai piagnistei né incline agli inciuci. Se lancia simili segnali d'allarme, vuol dire che la situazione è davvero sul punto di collassare.

Secondo. Il partito democratico non nascerà. Per quanti tentativi facciano, lo spermatozoo post comunista non riesce ad attecchire sull'ovulo postdemocristiano. Prodi è destinato a restare senza un "suo" partito.

Terzo. I ministri, fiutato l'andazzo allo sfascio, invece di fare quadrato fanno a gara a smarcarsi il più possibile dal governo e dal suo leader. Solo nelle ultime ore Antonio Di Pietro si è autosospeso (qualunque cosa questo voglia dire, visto che non ci sono precedenti), Fabio Mussi ha ipotizzato le dimissioni, Mastella ha minacciato di farle sul serio. Tutte proteste che rientreranno, per carità. Ma lasceranno strascichi dolorosi, mentre deve ancora aprirsi il capitolo più rischioso, quello della Finanziaria.

Quarto. Sempre meno senatori sono disposti a votare la fiducia a Prodi. Si è passati dai 165 voti pro-Prodi del 19 maggio (primo voto di fiducia del governo appena insediato) ai 160 del voto di fiducia sulla manovra bis, del 25 luglio. Il motivo è che tanti senatori a vita non ce la fanno più a reggere simili maratone. I numeri, sulla carta, Prodi li ha anche senza di loro. Però risicatissimi. Da infarto, appunto.

Quinto. Prodi sta cercando di portare Marco Follini dalla sua: è l'unica carta che ha a disposizione. Ma questa mossa disperata gli è fruttata, sinora, solo un cortese diniego.

E qui arriviamo al nocciolo della questione, quella che a detta di tanti, a destra come a sinistra, pare essere l'unica via d'uscita possibile: l'ipotesi Merkel. Una grande coalizione che veda insieme Ds, Margherita, Udc e Forza Italia, più eventualmente qualcun altro. E' quella che Follini propone da tempo, anche a Prodi. Ma è l'unica ipotesi che Prodi non può accettare, perché sarebbe la sua fine: privo com'è sia di partito sia di un qualche appeal bipartisan, può fare il presidente del consiglio solo in quanto leader del centrosinistra. Se muore l'Unione, finisce anche Prodi. E lui lo sa. Per questo, ancora oggi, parlando alla Camera, Prodi ha insistito a tenere viva l'illusione dell'autosufficienza dell'attuale maggioranza. Che però promette di essere la pietra al collo del centrosinistra che affonda. I segnali che arrivano dai Ds dicono che al Botteghino sono stufi del gioco logorante delle continue votazioni di fiducia a palazzo Madama, e che non hanno intenzione di andare a fondo con Prodi. Sono in arrivo tempi interessanti.

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