Perché Saddam è meglio vivo che morto

di Fausto Carioti
Ieri, a Baghdad, il pubblico ministero ha chiesto la condanna a morte di Saddam Hussein per l’uccisione di 148 abitanti del villaggio sciita di Dujail, ordinata dal rais nel 1982. Ad ascoltare solo ciò che dice la pancia, ci sarebbero molti buoni motivi per accettare con favore l’accoglimento di una simile richiesta da parte del tribunale. E di certo, se questa dovesse essere accolta, non varrebbe la pena di versare troppe lacrime per il dittatore deposto, condotto a giudizio per una parte comunque piccola dei suoi crimini. Ciò nonostante, la speranza è che la chiamata di Saddam nei giardini delle delizie descritti dal Corano, tra frutti abbondanti, vino che non dà ebbrezza e vergini perenni, avvenga per mano di madre natura, e non del plotone di esecuzione. Detta altrimenti, è meglio che nessuno tocchi Saddam.
A chi ha qualche soldo da puntare, il consiglio è di non scommetterlo sulla vita dell’ex dittatore. Intanto il diritto e le consuetudini giudiziarie mediorientali non fanno ben sperare sulla sorte di qualunque imputato, qualora questo sia riconosciuto mandante di 148 omicidi. Ma Saddam non è certo un imputato qualunque e il nodo, manco a dirlo, è politico. La regola non scritta, ma sempre applicata, è che i cambiamenti di regime cruenti trovino il loro culmine nel sacrificio pubblico del tiranno deposto: vale dappertutto - e in Italia ne sappiamo qualcosa - ma vale soprattutto in Medio Oriente. E poi in certi Paesi l’esibizione del cadavere del Nemico continua ad avere un forte valore simbolico, utile ad aumentare lo sconforto nei suoi seguaci, a dare fiducia ai suoi oppositori e a marcare agli occhi di tutti l’entrata ufficiale nel nuovo ordine di cose. Insomma, tutto sembra portare verso la stessa direzione.
Però, se l’obiettivo è quello di trasformare l’Iraq nel (difficile) laboratorio di un nuovo possibile Islam, un Paese del Corano dal volto umano che diventi esempio di tolleranza per Stati confinanti come Iran e Arabia Saudita, dove la barbarie prevale ancora sui diritti, il processo a Saddam rappresenta un’occasione irripetibile. Dichiarare che la nuova democrazia (perché questo è oggi l’Iraq, e non certo grazie ai pacifisti) è più forte degli spettri del passato, al punto da potersi permettere di rispettare la vita del tiranno di un tempo, che tanto ormai non spaventa più nessuno, darebbe al mondo il segnale più evidente che la transizione irachena si sta compiendo nel modo migliore. Non per Saddam, dunque, ma per l’Iraq.
Post scriptum. Ovviamente, qualora Saddam dovesse essere condannato a morte, i primi a intingere il pane nella sentenza sarebbero gli esponenti della sinistra antioccidentale, amici di tutti i dittatori di sinistra, pronti a tirare fuori dai cassetti i soliti slogan ammuffiti sul boia «amerikano» e sullo «Stato fantoccio» iracheno. Ma gli avvocati del macellaio Fidel Castro e di mille altre cause indecenti non hanno alcuna legittimità per giudicare la pagliuzza nell’occhio altrui. Decenza imporrebbe loro di tacere.

© Libero. Pubblicato il 20 giugno 2006.

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