La bottiglia ricavata dal mais, ovvero quello che avremmo potuto essere

Per capire bene quanto eravamo avanti e quanto siamo rimasti fermi. Era il 1990. La Montedison-Ferruzzi, che all'epoca faceva capo a Raul Gardini, aveva appena lanciato un materiale innovativo. Si chiamava Mater-Bi. Una plastica ottenuta dal mais, con la particolarità di essere biodegradabile. Qualcuno ricorderà: nel luglio di quell'anno il settimanale Topolino regalò ai suoi lettori una macchina fotografica realizzata con tale plastica. Gardini non badava a spese. La chimica italiana, dalla tradizione gloriosissima (il Moplen, la prima plastica realizzata per fare oggetti come la conosciamo noi, oggi fu un brevetto italiano, frutto del genio di Giulio Natta: era la metà degli anni Cinquanta, e la commercializzazione avvenne nel 1961), faceva ancora da pioniere per il resto del mondo. Gli altri a inseguire.
Sono passati diciassette anni. In mezzo, Tangentopoli, Enimont, il crac Ferruzzi, il piano di Enrico Cuccia, un capitalismo sempre più a corto di capitali, un Paese sempre meno interessato alla cultura tecnica e una competitività imprenditoriale sempre più risicata: colpa dei governi e della politica, ma anche degli imprenditori e del sistema educativo. Oggi, 29 maggio 2006, il quotidiano britannico "The Independent" apre con la notizia e la fotografia di un nuovo contenitore rivoluzionario per cibi. «E' la bottiglia che annuncia una rivoluzione della plastica», titola il giornale. «Pensateci, plastica fatta con il mais. Il potenziale per aiutare il pianeta è enorme», dice un portavoce della Balu, la giovane azienda che la produce (qui l'articolo). Gli inglesi sono arrivati ora dove eravamo arrivati noi diciassette anni fa. "The Indipendent" scrive oggi quello che Topolino scriveva in Italia nel 1990.
E il Mater-Bi? Mentre il grosso della chimica dei polimeri che faceva capo alla Montedison è passato alla Shell, il brevetto della plastica italiana ricavata dal mais è rimasto alla Novamont, la società creata da Gardini per la ricerca e la produzione di materiali innovativi. Che però adesso non appartiene più a un grande gruppo, ma deve reggersi sulle proprie gambe, dopo il collasso del gruppo Montedison-Ferruzzi e la fine di tutti i progetti di espansione su scala mondiale che Gardini aveva preparato per il nuovo materiale. Novamont conta oggi un centinaio di dipendenti e si definisce «una giovane realtà industriale», il che fa sorridere pensando a quello che c'è dietro. Controllata da Banca Intesa e gestita dai suoi ricercatori, è quella che si suole chiamare un'azienda piccola e dinamica, che fa quello tutto quello che può fare un'impresa che non ha alle spalle i capitali di un grande gruppo imprenditoriale specializzato nella chimica. Ha dovuto attendere il 2002 per superare il punto di pareggio. Il suo business ruota attorno al Mater-Bi, i cui prodotti vende un po' ovunque nel mondo. Ma non è niente rispetto a quello che avrebbe potuto essere oggi se le cose fossero andate in un altro modo. Intanto, gli altri non sono rimasti a guardare: ci hanno raggiunti e superati. E quella bottiglia inglese è lì che sbatte in faccia all'Italia l'ennesima occasione perduta.

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