La legge per l'amnistia e l'emergenza cotechino

di Fausto Carioti
Non che prima ci fossero dubbi, ma ora la gerarchia è stata certificata: tra le priorità politiche dei parlamentari italiani la metabolizzazione del cotechino viene prima dell’amnistia. La conferma è arrivata ieri mattina a Montecitorio dai 136 deputati presenti: 71 in meno di coloro che avevano chiesto di discutere il provvedimento in seduta straordinaria, quasi 500 meno del plenum dell’assemblea. Dei 207 che avevano firmato per la convocazione, se ne sono fatti vedere 93: meno della metà. Piaccia o meno, insomma, è stato un flop. Marco Pannella avrà pure le sue buone ragioni per prendersela con Pier Ferdinando Casini, “reo” di aver convocato la mattina del 27 dicembre la seduta nella quale si doveva discutere il provvedimento di clemenza. Ma è difficile dare torto al presidente della Camera quando, a chi protestava per aver convocato la Camera «alle 9,30 di una mattina dopo un giorno festivo», ha risposto che a quell’ora la gente “normale” è già al lavoro, e lo fa senza gridare allo scandalo. Tanto più che - anche se Casini non l’ha detto - nella stragrande maggioranza dei casi questo avviene senza ricevere in cambio uno stipendio mensile netto di 5.942 euro al mese, rimborsi vari e spese di viaggio esclusi, come quello riservato agli onorevoli.
Per chi si fosse perso le puntate precedenti, è successo che mentre Pannella, da par suo, riapriva il dibattito sull’amnistia - lanciato nel 2002 da papa Giovanni Paolo II durante la sua visita in Parlamento - e organizzava la marcia di Natale sotto i palazzi romani, Roberto Giachetti, della Margherita, raccoglieva le firme di un terzo dei deputati. Quante ne bastavano per ottenere una convocazione straordinaria della Camera tra Natale e Capodanno, allo scopo di discutere come fissare tempi certi per l’approvazione dell’amnistia. Casini, al quale spettava decidere la data e l’ora, ha convocato i deputati per la mattina del 27 dicembre. I radicali, che pensano male ma spesso c’indovinano, sostengono che il «provocatore» Casini l’abbia fatto apposta per far fallire l’iniziativa. Certo è che il presidente della Camera - il quale non si è mai sbilanciato sul tema amnistia, ma di certo non è un pasdaran del provvedimento - a flop consumato non ha esitato a spargere sale sulle ferite di chi aveva chiesto e ottenuto l’assemblea di ieri («I giornalisti contino pure quanti sono i presenti...»). Se l’intento di Casini era smascherare l’opportunismo di molti deputati, pronti a farsi belli con la nobile causa, c’è riuscito.
La figuraccia sarà pure stata bipartisan, visto che la richiesta di convocazione dell’assemblea di ieri era stata firmata da esponenti della maggioranza (quasi tutti di Forza Italia) come dell’opposizione, ma fa male soprattutto a sinistra, da dove peraltro arrivavano la maggior parte delle adesioni. Con i soliti intenti strumentali, molti parlamentari dell’opposizione avevano provato a trasformare la richiesta di amnistia nell’ennesima campagna antiberlusconiana e antigovernativa. I Verdi Alfonso Pecoraro Scanio e Paolo Cento volevano che il premier e i suoi ministri fossero presenti in aula. Ancora ieri Piero Sansonetti, il direttore di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, partito che ha abbracciato la causa dell’amnistia, faceva della clemenza una battaglia (anche) contro Berlusconi, il quale, si leggeva nell’editoriale, «inizia la sua campagna elettorale con giganteschi manifesti nei quali annuncia di avere infilato in ogni quartiere, e in ogni condominio, più poliziotti e più carabinieri».
Poi, però, si è arrivati al momento della verità, alla seduta di ieri, dove si doveva capire chi ci credeva davvero e chi no. I cronisti parlamentari, aiutati dai soliti deputati compiacenti, si sono divertiti a contare gli assenti non giustificati, quelli che avevano firmato affinché la seduta fosse convocata e poi hanno preferito smaltire i pasti natalizi nel salotto di casa o andarsene in vacanza all’estero. Tra questi, le rifondarole Graziella Mascia e Titti De Simone, il verde Marco Boato, i margheritini Rosy Bindi, Ermete Realacci, Gerardo Bianco, Enzo Bianco e Franco Marini, i comunisti italiani Oliviero Diliberto e Katia Bellillo, le diessine Marida Bolognesi, Barbara Pollastrini e Livia Turco. Nomi di prima fila a sinistra, che nella prossima legislatura, in caso di vittoria dell’Unione, contano di occupare incarichi di governo, che peraltro diversi di loro hanno già ricoperto in passato. Tipi dai quali ci si attenderebbe una coerenza che ieri non si è vista. Tra i firmatari c’è chi, come la Bolognesi, ha provato a giustificare la propria assenza col fatto che ieri si sarebbe discusso e basta, non ci sarebbe stata alcuna votazione. Se la pensano così, dovevano informarsi prima di farsi eleggere: in un posto che si chiama “Parlamento” l’esercizio del parlare, del dibattere, fa parte dei doveri istituzionali di chi lo compone. A maggior ragione quando la seduta l’hai convocata tu.
Per chi ha occhi per vedere, il flop di ieri non è stato inutile. Ha fatto capire, meglio di tante dichiarazioni pompose, che le premesse politiche per varare l’amnistia proprio non ci sono. La legislatura sta per chiudersi, i tempi sono strettissimi e i veti incrociati, a destra come a sinistra, sono forti. Ci vorrebbe una volontà politica di ferro per trasformare l’amnistia in legge. Ma se i suoi stessi proponenti non se la sentono di rinunciare alla cena con i parenti per salire su un aereo la sera del 26 dicembre o rifiutano di mettere la sveglia alle 6 del mattino per venire a Roma, è chiaro che questa volontà manca e che per troppi questa partita non è una cosa seria, ma solo l’occasione per farsi uno spot elettorale a costo zero. Nel senso che lo pagano quelli che stanno in carcere. Per molti dei quali l’amnistia sarebbe un giusto e nobile atto di clemenza, per altri una riduzione immeritata della pena. Ma questo è un altro discorso.

© Libero. Pubblicato il 28 dicembre 2005.

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