Quote rosa: umilianti, inefficienti, pericolose

di Fausto Carioti
Margaret Thatcher, per diventare primo ministro inglese, non ha avuto bisogno di "quote rosa". La figlia del droghiere ha fatto mangiare la polvere a tutti gli uomini del suo partito, uno dopo l'altro, fin quando non si è trovata, sola, al vertice dello schieramento conservatore e del governo. Storia analoga, e più recente, in Germania, dove la tedesca Angela Merkel (conservatrice pure lei, a conferma che l'emancipazione femminile non è monopolio della sinistra) è stata appena designata cancelliere, a coronare una carriera politica della quale hanno fatto le spese moltissimi uomini, evidentemente meno capaci di lei. Anche in Germania non esistono quote rosa obbligatorie, ma semplici livelli minimi - più o meno elevati - di presenza femminile all’interno dei partiti, che questi - peraltro non tutti - adottano di propria iniziativa. Il principio della selezione del migliore al termine di una competizione leale dovrebbe essere il sale di ogni democrazia e, come visto, non impedisce alle donne di arrivare ai massimi vertici della politica. Non sarà così in Italia, dove gran parte delle parlamentari hanno chiesto - e stanno ottenendo - regole diverse. Regole, previste nel disegno di legge varato ieri dal Consiglio dei ministri e atteso ora in Parlamento, che garantiscono alle donne una presenza minima, pari a un terzo dei candidati, nelle liste elettorali. Un “aiutino” che, vista la composizione bloccata delle liste, cioè l’impossibilità per gli elettori di esprimere preferenze, con la nuova legge elettorale si tradurrà automaticamente in un seggio.
Complimenti al ministro Stefania Prestigiacomo, che per le quote rosa si è battuta sino alle lacrime. Complimenti a Silvio Berlusconi, che ora - se riuscirà a far tradurre in legge il provvedimento - avrà buoni motivi per sbeffeggiare quella sinistra che ha accusato la Casa delle Libertà di misoginia. Il rischio concreto, però, è che si sia messo in piedi un meccanismo che umilia le donne, rischia di produrre una selezione inefficiente della classe politica e inaugura un precedente illiberale nell’accesso alle cariche pubbliche.
Le ragioni per cui molte donne si possano sentire umiliate le ha riassunte bene Emma Bonino quando, applaudendo alla bocciatura dell’emendamento con cui a metà ottobre si era cercato di introdurre le quote rosa nella legge elettorale, ha detto che si tratta di provvedimenti «emergenziali» buoni per democrazie come quella afghana, non per l’Italia, e che le donne italiane dovrebbero «ritenere e cercare di valere ben oltre la semplice appartenenza a un genere».
Inoltre, ovunque siano state adottate quote che hanno avvantaggiato alcuni gruppi rispetto ad altri, questo è avvenuto a scapito della qualità dei selezionati. Esiste una serie sterminata di statistiche sui danni prodotti nelle università e nelle pubbliche amministrazioni in quei Paesi dove sono stati introdotti simili provvedimenti. Quella che era nata come una promozione sociale all’insegna del politicamente corretto ha finito infatti, inevitabilmente, per trasformarsi in un’ingiustizia, consentendo il passaggio della selezione a individui meno qualificati di coloro che, non essendo tutelati, si sono ritrovati primi nella lista dei bocciati. Non si vede perché la politica italiana debba fare eccezione. Anche perché è tutto da dimostrare che in ogni partito, a partire dai tesserati, ogni due uomini vi sia davvero una donna ansiosa di fare carriera politica. Insomma, il pericolo reale è che certi partiti si vedano obbligati a candidare l’ultima arrivata pur di rispettare l’obbligo delle quote. Quando poi non avverrà quello che paventa, perfida ma realista, la Bonino, ovvero che i segretari di partito «invece dei loro amichetti metteranno in lista le loro amichette».
Infine, con le quote si apre un vaso di Pandora dal quale - l’esperienza di altri Paesi è lì a dimostrarlo - rischia di saltare fuori di tutto. Per quale motivo, infatti, nelle liste elettorali non debbono essere previste quote per gli omosessuali e i transessuali? Essendo cittadini al pari degli altri, perché la loro identità e il loro orientamento sessuale non debbono essere rappresentati in Parlamento? E cosa impedisce, ad esempio, agli italiani di fede islamica di chiedere la loro dose di quote? L’identità religiosa è forse meno importante di quella sessuale? E ancora: perché le quote riservate alle donne - o a qualsivoglia minoranza - debbono riguardare solo l’ingresso in Parlamento e non, ad esempio, la selezione nelle università o l’accesso ad altre cariche della pubblica amministrazione? E per quale motivo i privati debbono comportarsi in modo diverso dal settore pubblico? Se il fine è imporre per legge non la parità delle condizioni di partenza (obiettivo già di per sé utopistico), ma il raggiungimento dei risultati, i mezzi possibili sono infiniti come la fantasia del legislatore. Peccato che la vittima si chiami libertà.

© Libero. Pubblicato il 19 novembre 2005 col titolo: "La Thatcher non era in quota rosa".

Grazie a Walking Klass, consigliato a chiunque voglia saperne di più su Angela Merkel e il sistema politico tedesco, per la preziosa consulenza.
Sullo stesso argomento, imperdibile Massimo Gramellini sulla "Stampa" di oggi.

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