Partito unico sì, pensiero unico no

A un primo impatto il ragionamento pare convincente: «Se la pensiamo diversamente su temi tanto importanti, che ci stiamo a fare nello stesso partito?». Ed è proprio poggiandosi su questo principio che in alcuni settori della maggioranza si va facendo strada il dogma per cui nel futuribile partito unico del centrodestra debbono avere diritto di cittadinanza solo quelli che la pensano in un certo modo. Sul taglio delle tasse e gli aiuti alle famiglie, ad esempio. O sull’Iraq e i rapporti atlantici, sulla fecondazione assistita, sulla flessibilità del lavoro e le garanzie del welfare, sull’aborto, sulle riforme istituzionali. E domani su chissà cos’altro. Eppure la sensatezza del ragionamento è solo apparente. Il principio secondo il quale per dar vita al partito unico occorra un pensiero unico è un suicidio politico. Lo sanno bene i consiglieri di Silvio Berlusconi, che gli hanno spiegato la necessità di evitare ogni conventio ad excludendum, ricordandogli l’importanza di «massimizzare l’offerta politica agli elettori». Ovviamente, non è certo il premier la persona da convincere: il nodo riguarda gli alleati, primi tra tutti i folliniani, i quali pongono come condizione che il programma del nuovo soggetto sia di «matrice democristiana».
Un suicidio. Intanto perché, dall’altra parte della barricata, c’è un’aggregazione di centrosinistra - l’Unione - che riesce a far convivere ampie sacche di resistenza veterocomunista e riformisti privatizzatori, filo-americani cresciuti col mito liberal dei Kennedy e picchiatori dei centri sociali, ex ministre col rosario e atei militanti. Prevedere una catastrofe governativa qualora questa accozzaglia dovesse andare al potere è lecito, ma sarebbe stupido - e anche questo è stato fatto notare al premier - sottovalutare la potenzialità di marketing elettorale che essa rappresenta. Il centrosinistra offre infatti un “prodotto” che promette di soddisfare i “bisogni” di ogni tipo di elettore: per chi chiede garanzie ci sono ben due partiti comunisti e la sinistra Ds, chi vuole cavalcare la modernità può rivolgersi alla pattuglia riformista; i filo-americani hanno il loro Rutelli (quelli un po’ più tiepidi si accontentano di Fassino), chi tifa per Hamas e la resistenza irachena si tiene stretto il suo Diliberto; i contrari ai matrimoni gay scelgono la Margherita, ai favorevoli basta spostarsi un po’ più a sinistra; i no-global possono contare su Verdi e Rifondazione, mentre chi chiede “law and order” si butta su Di Pietro. Senza arrivare a tanto, davanti a una offerta concorrente così ben segmentata, non si vede una ragione valida per cui il centrodestra debba mettere sul mercato un prodotto in grado di piacere a un solo tipo di elettore.
L’esempio dei repubblicani Usa
Chiudersi a riccio su una formula tagliata con l’accetta sarebbe un suicidio anche perché, fatalmente - la storia politica italiana lo insegna - scoprirebbe il fianco del partito unico di centrodestra a sanguinose scissioni o alla concorrenza elettorale di ali destre (Mussolini e dintorni) e sinistre (i radicali) che già adesso, assieme all’astensione, giocano un ruolo importante nell’erosione del consenso elettorale della Cdl. Ma se si manda a monte l’assetto attuale per costruire un partito nuovo, si presume che lo scopo sia quello di prendere più voti di prima, non meno. Del resto, c’è l’esempio del partito repubblicano statunitense, al quale lo stesso Berlusconi ha confessato di ispirarsi per il suo progetto. Sotto l’elefante, simbolo del Grand old party, convivono da decenni antiabortisti che citano la Bibbia e libertarian anarco-individualisti, isolazionisti alla Kissinger e interventisti alla Wolfowitz, tagliatori di tasse e gonfiatori della spesa pubblica. Anime che spesso - come dinanzi al caso Terri Schiavo - si trovano su posizioni inconciliabili. Anime che si scannano durante le elezioni primarie, ma che si ricompongono sempre al momento di votare il candidato alla Casa Bianca.

© Libero. Pubblicato il 3 maggio 2005)

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